Ieri avevamo letto sia sul Corriere che su Libero la notizia dell'exploit del senatore Aracri che ha proposto un emendamento al decreto Salva Roma per il quale i dipendenti delle municipalizzate non potranno essere licenziati anche in caso di necessità di riorganizzazione aziendale per eccesso di deficit finanziario delle stesse, se i sindacati poranno il veto a tale misura. Uno spettacolo, promosso da uno di Forza Italia, il partito antistato, secondo la vulgata berlusconiana a cui nessuno crede più. Naturalmente il correttivo ha subito trovato l'appoggio trasversale e convinto di quelli del PD.
Avevamo ricordato, nel riportare la "fausta" notizia ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/12/licenziamenti-nelle-municipalizzate.html ), che il partito della spesa pubblica e delle corporazioni è quello che realizza le VERE larghe intese nel parlamento.
Non è una considerazione originale, che meglio di noi è stata più volte spiegata da osservatori autenticamente liberali (altro che gli uomini del Cav ) come Davide Giacalone e Angelo Panebianco.
E infatti, puntuale, arriva l'amare editoriale di quest'ultimo sulla triste vicenda.
Buona Lettura
Il peso dello stato corporativo
Maggioranze inconfessabili
Non è difficile spiegare perché la legge di Stabilità varata dal governo sia così tragicamente inadeguata (Alberto Alesina sul Corriere di ieri), perché non sia possibile rilanciare la crescita mediante un percorso virtuoso di tagli alla spesa e di riduzione della pressione fiscale. Accade perché interessi, tradizioni culturali, e regole del gioco fanno sinergia e remano contro, impediscono che lo «Stato corporativo» venga scalfito.
La maggioranza bipartitica che si è formata sulla questione delle aziende municipalizzate a Roma dice, a proposito di Stato corporativo, tutto ciò che c’è da sapere. Qui non si vuole infierire su Berlusconi o sull’onorevole Brunetta ma è stato uno dei loro, il senatore di Forza Italia Francesco Aracri (un originale interprete della Rivoluzione liberale), a proporre l’emendamento che dà ai sindacati il potere di veto sui licenziamenti nelle municipalizzate di Roma. E nemmeno si vuole infierire su Matteo Renzi ma sono stati i suoi a votare l’emendamento del suddetto senatore mentre veniva respinta (per veto Cgil) una proposta di Linda Lanzillotta che andava nella direzione opposta (Sergio Rizzo, Corriere di ieri a pagina 5).
Fossi al posto di Enrico Letta , che è uomo colto e intelligente, anziché difendere l’indifendibile, spiegherei al Paese perché qui da noi ciò che ci si propone inizialmente di fare — vedi la parabola tragicomica della spending review — non può essere fatto (da nessuno: Renzi se ne accorgerà presto), le ragioni per cui è al di là delle umane capacità innescare in Italia un percorso virtuoso di sviluppo. Potenza delle lobbies che, in Parlamento, nell’amministrazione, negli enti locali (i sindaci vogliono soldi ma si guardano bene dal mettere le mani nelle municipalizzate in deficit), negli organi della giustizia amministrativa, stanno a guardia della spesa pubblica? Certamente. Forza di una tradizione culturale che avalla e legittima l’azione delle suddette lobbies? Sicuro. Regole del gioco, costituzionali e non, costruite per impedire inversioni di marcia? Detto e ridetto.
Sostengono i cantori dello Stato corporativo che così si tutela la pace sociale. Ma il punto è che quando tali pratiche diventano incompatibili con lo sviluppo (e oggi lo sono), e l’impoverimento del Paese avanza inesorabilmente, finisce per gonfiarsi l’esercito dei non tutelati, o dei non più tutelabili, e, alla fine, anche la pace sociale viene meno. A causa della rivolta, e dell’assedio, degli esclusi. Dopo le elezioni della primavera scorsa e l’impasse politico che ne seguì, per un breve momento, sembrò entrata nella consapevolezza dei più l’idea che occorresse cambiare le regole del gioco, sbarazzarsi di ciò che di sbagliato o inadeguato c’è nella Costituzione del ’48. È tutto già finito. E si capisce: con una Costituzione diversa, i governi italiani potrebbero disporre di una forza simile a quella che detengono i governi delle altre grandi democrazie europee. Ma il partito trasversale della spesa e delle tasse non può accettarlo. Le regole del gioco attuali lo proteggono. Con altre regole potrebbe, un giorno, essere sfidato o minacciato. Peter Praet, capo economista della Bce (su La Stampa di ieri) dice che siamo stati bravi, abbiamo messo sotto controllo i conti. C’è solo — egli nota — il piccolo dettaglio che lo abbiamo fatto a colpi di tasse anziché di tagli. Moriremo per asfissia da tasse ma con i conti (forse) in ordine. Sono soddisfazioni.
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