Curioso di storie. Mi piace ascoltarle e commentarle, con chiunque lo vorrà fare con me.
lunedì 20 gennaio 2014
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA "RISPONDE" A PAPA FRANCESCO SUL CAPITALISMO
Nel giorno in cui leggo che Papa Francesco avrebbe criticato aspramente il Capitalismo perché " contrario ad ogni forma, fosse anche la più elementare, di solidarietà sociale. Esso distrugge ogni legame fra gli esseri umani, incentivando la competizione e la lotta di tutti contro tutti”. trovo curiosamente la risposta di Ernesto Galli della Loggia, che condivido appieno.
In verità, il bravo opinionista non risponde propriamente al pontefice, che ha tutto il diritto di spiegare il suo pensiero (ricordiamolo anche quando dice cose non di "sinistra" magari...) . così come noialtri di dissentire e di criticare, ma a Roberto Esposito, che in un suo articolo su Repubblica aveva proposto uno dei tanti. stolidi attacchi al cd. "neo liberismo".
Le considerazioni si attagliano perfettamente al luogo comune che tale resta ancorché pronunciato da un soglio così prestigioso.
L'articolo è lungo, e non mi dilungo oltre, esertandane però un'attenta lettura. Solo un'osservazione : sarà anche vero che la dottrina neo liberista propone la riduzione del deficit tramite tagli alla spesa pubblica, ma non è quello che poi per ora avviene, che l'obiettivo viene allo stato perseguito tramite il salasso fiscale.
"Come fare del liberismo un facile capro espiatorio"
Non c’è niente da fare, nell’oggi siamo destinati ad essere governati in permanenza dai «cattivi»: così vuole un’antica regola del pensiero forte di sinistra. I «buoni», infatti, quando ci sono, appartengono regolarmente al passato. E in genere il pensiero forte di cui sopra li scopre solo molto tempo dopo. A cose fatte: vedi il caso della socialdemocrazia del dopoguerra europeo, o i keynesiani degli anni Quaranta-Sessanta, oggi — ma solo oggi — rimpianti entrambi dalla sinistra come il paradiso perduto.
A vestire oggi i panni del «cattivo» è il «neoliberismo». Di esso ci ha fornito un quadro decisamente polemico Roberto Esposito con la sua consueta nettezza, sulla «Repubblica» del 7 gennaio. Non me ne vorrà se gli risponderò — se non altro per meglio delineare gli opposti punti di vista — con lo stesso tono polemico.
Dopo essersi impadronito del governo di questa parte del mondo (perché e con quali arti non è detto, e invece, forse, sarebbe stato utile chiederselo: non c’era il suffragio universale?), il «regime neoliberale», scrive Esposito, non ha certo messo lo Stato stesso in un angolo, né tanto meno lo ha smantellato. Aveva detto, sì, che questo era il suo obiettivo, ma in realtà il «neoliberismo» — come del resto aveva già fatto due secoli fa il liberismo: vedi la lezione di Karl Polanyi — si è servito dello Stato per imporre le sue regole nefaste. «Non sono i mercati ma gli Stati ad aver introdotto il modello concorrenziale dell’impresa in tutte le dinamiche sociali», afferma dunque il nostro autore, così come sono sempre «gli Stati che competono tra loro nell’attrarre gli investimenti delle multinazionali abbassando il livello dei salari e della previdenza sociale» (per la verità, è la concorrenza internazionale dei nuovi mercati del lavoro che produce l’abbassamento dei livelli salariali, i quali, a quel che mi risulta, in nessun Paese capitalistico del mondo sono decisi da una qualche autorità politico-statale).
Non basta. Grazie «all’estendersi della competitività a principio generale di governo», «il governo neoliberista» diviene « produzione attiva di norme di vita sul piano giuridico, etico e prima ancora antropologico (…). Oggi tutti i rapporti con gli altri e perfino con se stessi sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così (…) il neo liberalismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza». Secondo un collaudato modello teorico, insomma, è l’economia a governare sia la cultura che l’antropologia: sicché, anche per Esposito, dall’abbassamento dei salari alla mercificazione universale il passo è obbligato. Segue infine la polemica di prammatica contro «i danni sociali dell’alta finanza», e contro l’idea «neoliberista» di «ripianare i deficit pubblici a colpi di tagli alla spesa sociale» (senza dire però che si tratta della ricetta dettata da quell’Europa che da una trentina di anni è carissima a tutta la sinistra continentale, a cominciare dal nostro presidente della Repubblica. Una ricetta, tra l’altro, per la prima volta messa in pratica a suo tempo dalla socialdemocrazia tedesca con Schröder: o no?).
Merita di soffermarsi sul quadro schizzato da Esposito, perché esso va sostanzialmente al di là di una critica certo non nuova alla situazione odierna. Ciò che in esso colpisce soprattutto, infatti, è la tenacia con cui il pensiero radicale che si vuole a tutti i costi antagonista, continui — pur da parte di un suo esponente così acuto come Esposito — a confondere disinvoltamente la modernità con il capitalismo. Come esso continui ad attribuire per intero i meccanismi sociali e psicologici, tipici della prima, agli effetti del mercato e del profitto, tipici del secondo. In particolare, è sorprendente come il pensiero radicale antagonista continui a sottovalutare l’autonoma portata della secolarizzazione — cuore pulsante decisivo della modernità — preferendo tuttora, invece, fare sempre dell’economia il centro motore di tutto. O meglio, più che dell’economia addirittura della politica economica e delle diverse fasi del ciclo. Stando alla ricostruzione di Esposito e di tanti altri, dovremmo infatti pensare che fino agli anni Sessanta, per esempio — quando di «neoliberismo» neppure si parlava, quando i tagli alla spesa sociale erano ancora di là da venire — dovremmo pensare che a quel tempo l’antropologia delle società occidentali fosse ancora il regno dell’autenticità e della solidarietà (e invece non c’erano già allora intere biblioteche dello stesso pensiero radicale che dicevano il contrario? La scuola di Francoforte ce la siamo sognata o è realmente esistita? E che dire dello stesso Marx?). Dovremmo pensare, insomma, che solo quando sono apparsi la signora Thatcher, Reagan, e poi i problemi dell’euro, solo allora avrebbe cominciato a dilagare l’egemonia del «principio mercantile del guadagno» e della concorrenza tra gli individui.
Le cose evidentemente non stanno affatto così, e in realtà sembra più utile su questo piano un’analisi che si muova a un livello più alto, guardi a orizzonti più ampi e consideri tempi più lunghi. Si vedrà allora che, mentre l’umanità è sempre stata esposta alla tentazione del guadagno a ogni costo, mentre essa è sempre stata tentata dal fare di tutto per conseguirlo, solo in Occidente, però, si sono verificati due processi di portata deflagrante che hanno cancellato progressivamente gli argini culturali che in tutti gli altri contesti storici bene o male frenavano o disciplinavano tale tentazione. Due processi, ho detto. Da un lato un processo di razionalizzazione assoluta di ogni ambito della realtà e della vita, di espulsione di qualunque aspetto magico-spirituale, che ha avuto il momento-chiave nella scoperta della scienza e nel suo sviluppo. Dall’altro una vita collettiva sempre più penetrata dalla centralità del singolo individuo, alla quale centralità ha provveduto a dare di certo un contributo non piccolo anche il Cristianesimo.
L’Occidente è stato una sorta di alambicco faustiano dove questi due processi si sono combinati, crescendo e rafforzandosi vicendevolmente. Dalla scienza sono nate le migliaia di scoperte che sappiamo, hanno tratto origine il mondo delle macchine, l’accrescimento inaudito delle merci, la più cruda e assoluta possibilità per gli esseri umani di avere a propria disposizione la natura. Dall’originario individualismo, invece, si è sviluppata la soggettività moderna, sempre più libera e insofferente di ogni legame personale e collettivo, l’io moderno critico di ogni regola, desideroso solo di affermarsi, di avere, di prevalere, di godere, di espandersi, obbedendo esclusivamente al proprio demone.
Per parlare alla buona e farla breve, la modernità non è altro che la somma e l’intreccio di questi due ingredienti, la loro esplosiva combinazione.
Dunque, e per tornare all’argomento iniziale, tutto ciò che si manifesta nel capitalismo e che non ci piace (non piace al pensiero radicale di Esposito, ma non piace neppure al mio liberale e «moderato», così come non piace a tutto il pensiero religioso e — diciamolo pure — a nessun essere umano convinto che «non di solo pane» con quel che segue), quel che non ci piace del capitalismo altro non è alla fine che il prodotto dei due ingredienti del terribile alambicco faustiano di cui dicevo sopra.
La vera differenza tra il punto di vista di Esposito e quello di altri che pure, come lui, non amano particolarmente lo spettacolo attuale, sta nel fatto che in realtà la tradizione del pensiero radicale che Esposito abbraccia ha fortissime difficoltà a criticare alcuni tratti fondanti della modernità a prescindere da ogni risvolto di tipo economico, cioè in quanto tali, nonché a criticare l’orientamento, tipico della stessa modernità, alla dilatazione della sfera soggettiva. E allora, piuttosto che andare al cuore e all’origine delle cose attuali che non gli piacciono, trova più facile addebitarle per intero al capitalismo. O meglio — poiché oggi, dopo la crisi del comunismo e il conseguente appannamento del marxismo, il puro e semplice anticapitalismo ha perso il suo smalto ideologico — addebitarle per intero al «neo-liberismo».
In maniera ancora più contraddittoria, anzi, il pensiero critico che si vuole antagonista cura di scegliere con acribia «politicamente corretta» tra tutti gli effetti riconducibili alla modernità e alla espansione del soggetto. Sicché mentre da un lato stigmatizza al massimo quegli effetti che riguardano i comportamenti di tipo economico (connessi per l’appunto alla sfera dell’«utile», alla «sete di guadagno» o alla «centralità del denaro»), dall’altro lato, invece, auspica lo sviluppo di quelli non economici, e li saluta ogni volta come luminose conquiste di un necessario progresso. Penso, ad esempio, a tutti i fenomeni che riguardano la secolarizzazione e la perdita di rilievo simbolico decretata nella sfera pubblica alla religione e in particolare al Cristianesimo, ovvero alla sempre più straordinaria enfasi posta sui diritti soggettivi, sulla loro estensione e moltiplicazione, sulla carica ideologica che li accompagna. Si direbbe insomma che, mentre la modernità della laicità e la soggettività e dei diritti vanno benissimo, e sarebbero quanto mai encomiabili, viceversa la modernità e la soggettività che si manifestano nel «neo-liberismo» o nella «sete di guadagno» vanno male e sarebbero riprovevolissime.
Eppure dovrebbe essere evidente che tutto si tiene. Che concettualmente — ed ancora di più sul piano della ricostruzione genetica dei fenomeni — è di fatto impossibile separare una modernità buona (quella dei diritti) da una modernità cattiva, (quella del profitto, delle banche e della «sete di guadagno»). Così come dovrebbe essere evidente che tra le due c’è un ovvio rapporto di intrinsichezza e di necessità. Che senza l’indirizzo impetuoso verso il «moderno» e l’individualismo, che è il tratto fondante della nostra cultura — un tratto, lo ripeto, che affonda nei secoli ben prima di qualunque capitalismo, ma che è consustanziale al capitalismo e da esso riceve un continuo incentivo —, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiedere l’asportazione dei crocefissi dalle aule scolastiche, così come a nessuno sarebbe mai venuto in mente di immaginare l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione sessuale o alla «genitorialità», alla «buona morte» o altri simili diritti. Le due modernità — quella capitalista, o neoliberista che sia, della «sete di denaro» e della «mercificazione», e quella del libero pensiero e dei diritti individuali — non sono state due cose diverse che hanno proceduto, chissà come, su due binari paralleli. Si è trattato sempre della stessa cosa: di quella mistura che si agita e ribolle nell’alambicco faustiano dell’Occidente, distillando indifferentemente un insieme di fenomeni i più diversi, ma tutti legati strettamente tra di loro.
Tra i quali, mi sia consentito quest’ultimo accenno, c’è anche la democrazia: con i suoi alti ideali di eguaglianza e di libertà da una parte, ma dall’altra pure la maledetta necessità di trovare i soldi per riuscire a dare a tali ideali una qualche concretezza. La democrazia di continuo travagliata dalla soggettiva ansia di reddito, di sempre più reddito, di tutti i suoi cittadini, e insieme dal vincolo del prelievo fiscale, del debito, dei mercati. Piuttosto però che sporcarsi le mani con l’insieme di queste vere e aspre questioni, piuttosto che fare i conti con le contraddizioni profonde della modernità, il pensiero radicale antagonista trova più facile abdicare a una reale funzione critica, sostanzialmente buttarla in politica, e addebitare tutto ciò che qui e ora non gli garba, all’Uomo Nero del «neo-liberismo».
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ma questo presuntuoso giornalaio Ernesto Galli della Loggi ha ragione quando dice che l'italia è in declino con un giornalaio come lui c'è poca speranza
RispondiEliminaIl dibattito scritto di cui sopra è interessante e mi permetto di aggiungere, senza voler competere con i due illustri professionisti, che il liberismo è figlio di ciò che in politica si definisce "liberalismo".Il suo opposto politico si è manifestato nella filosofia economica marxista dalla quale è sfociato, politicamente, il comunismo, con le conseguenze che tutti conosciamo. La Chiesa, in tutti e due i casi, si è trovata fuoriluogo e a malpartito; il cristianesimo non collima e collude mai con lo spirito del tempo, qualunque esso sia. Bergoglio, a mio modesto parere e per quanto lo si voglia negare, corteggia, più o meno velatamente, la Teologia della Liberazione: la povertà intesa come stato di grazia o come vera e propria divinità. La povertà, però, come ha scritto Benedetto XVI costituisce un santificante stato di grazia quando è scelta e vissuta con letizia. Il povero costantemente avvelenato di rabbia e furore per la sua condizione non è, sprirtualmente, messo meglio del ricco. La via di Bergloglio non somiglia alla terza via individuata dai Padri costituenti della nostra Costituzione e, di conseguenza, al codice di Camaldoli. In questi casi liberalismo e liberismo, con equa ridistribuzione delle ricchezze, davano all'uomo la dignità della libera e gratificante esperienza e gratificazione di sè nel lavoro e dei suoi frutti economici. L'individualismo di oggi, qui dissento con Della Loggia, è la conseguenza di una brutale secolarizzazione dell'occidente e del suo progressivo abbandono di una visione trascendentale dell'esistenza, fomentati, soprattutto, dalle sinistre progressiste e comuniste, vedi '68. Questi hanno visto nei precetti della Chiesa Cattolica e in quei valori non negoziabili di Benedetto XVI il ciarpame spirituale che impediva il vero progresso: i diritti umani dei quali rispondere solo e unicamente all'uomo in quanto tale. Etica umana. Questo capitalismo selvaggio è il frutto delle sinistre arrabbiate contro la borghesia, anche quella degli imprenditori illuminati alla Olivetti. Il '68 e i suoi cantori ci hanno regalato, paradossalmente, i Berlusconi, la globalizzazione selvaggia e i matrimoni gay.
RispondiEliminaLa critica, legittima, di Bergoglio contro il capitalismo non tiene conto del fatto che il suo contrario, marxismo, altro non è se non una filosofia puramente economica, mirata all'eliminazione della lotta di classe azzerando tutte la classi sociali meno una. Il comunismo, però, non ha mai mirato all'eliminazione della povertà.