venerdì 31 gennaio 2014

"UNA CONDANNA AD OGNI COSTO". C' ERA UNA VOLTA L'INSUFFICIENZA DI PROVE...


Non sono rimasto sorpreso dalla sentenza di Firenze che ribalta il verdetto della Corte d'Assise d'appello di Perugia, perché la bocciatura della stessa da parte della Cassazione suonava francamente come una campana a morte per Amanda e Raffaele. La Cassazione non poteva essere lei a pronunciare la condanna, ma aveva impostato accuratamente la strada. Come del resto interpretare una sentenza in cui si dice ai futuri giudici : tenete conto di a) b) c)....e non su questioni di diritto ma sugli elementi di prova ?
Ciò posto, non ho mai espresso la convinzione che i due fossero innocenti, semmai sono entrato in polemica con coloro che erano certi della colpevolezza. Gente lontana anni luce, come me, dalle carte giudiziarie, dai dibattimenti in aula e pensa che ci si possa convincere tramite i resoconti della cronaca dei giornali o, peggio, dai salotti in tv. Polemizzo col tifo da stadio, con i procuratori che sembrano allenatori che hanno appena perso il derby (e a volte i mister del calcio sono più sobri nelle dichiarazioni), con gli avvocati della parte civile che si dimenticano il garantismo dei giorni normali, per diventare più forcaioli di certi pm d'assalto in forza della parcella ricevuta. Non contesto che uno si faccia una idea, anche io alla fine ce ne ho una. Ma resta  un processo dove non ci sono prove, come non ci sono alibi. Ci sono indizi pro e contro e quando si parla della vita delle persone non credo si possa fare un calcolo di "prevalenza", magari buono per il processo civile, non quando c'è in gioco la libertà.  Questa resta la mia idea, che condivido con molti, e che di più contestano (poco importa, anche nella pratica, che la Costituzione propenda più per il mio principio che per quello dei giustizialisti). 
Io resto ammirato da Stephanie Kerker, che alla vigilia della sentenza di ieri, in una intervista al bravo scrittore Roberto Costantini (chi vuole la trova qui : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/01/dalla-sorella-di-meredith-kerker-una.html ) ha impartito una lezione di dignità, sobrietà e soprattutto di civiltà rare. Sarà che lei è inglese, anglo sassone, nordica, e noi latini ? Quindi "istintivi", "pancisti", e fieri di esserlo ?
Non so, certo è che si tratta di un esempio raro, difficile, che pure ci dovremmo sforzare di seguire. Anche ieri , spossata per la lunga attesa, dopo la sentenza è rimasta composta, dicendo ai cronisti che non ha nulla da festeggiare. E' consapevole che ci sarà ancora da attendere per mettere la parola fine a questo processo e che la verità assoluta non ci sarà mai. Lei e i suoi hanno deciso di contentarsi di quella giudiziaria ed è un loro diritto, vissuto come detto con grandissima ed esemplare dignità.
Ieri a Porta a Porta Vespa era già pronto col suo team. Io mi sono risparmiato lo spettacolo, ma facendo zapping mi sono un attimo fermato per sentire una bella signora (probabilmente questo è il motivo che mi ha fatto indugiare, maschio del cavolo che sono, e ben mi sta! ) che diceva una cosa come : adesso le condanne sono due, siamo 2-1...Roba da non crederci. A tono non so chi le ha risposto "e palla al centro", che c'è ancora la Cassazione (ancorché, se la sezione sarà la stessa che si è pronunciata in precedenza, la vedo ardua per i due ragazzi. Ma così non dovrebbe essere). Insomma, come detto e biasimato, una partita di calcio, coi mister, i giocatori e soprattutto tanti tifosi.
Troppi.

Tra i vari articoli letti, mi è piaciuto il contributo di Alessandro Perissinotto, su La Stampa. E' uno scrittore, anche lui come Costantini, e quindi non un giurista. Però appassionato di noir, che molti suoi romanzi sono appunto incentrati su delitti e processi. Questo non ne fa un esperto, ma un buon orecchiante, certo non peggiore di altri.
MI piace, del suo scritto, il ribadire un principio a cui non ci vogliamo rassegnare, ancorché accada così spesso : non sempre è possibile sapere la verità.

Una condanna a ogni costo



C’era una volta l’assoluzione per insufficienza di prove. Era una macchia che ti portavi dietro per tutta la vita, più di una condanna. 
La condanna era il preludio alla redenzione, era il castigo dopo il delitto; l’insufficienza di prove era il sospetto che non ti scrollavi di dosso. E se per qualcuno l’insufficienza di prove corrispondeva a una sconfitta della giustizia, per altri rappresentava il momento più alto, quello in cui la giustizia stessa accetta i propri limiti, ammette che non si è in grado di andare oltre ogni ragionevole dubbio: una giustizia senza deliri di onnipotenza. Oggi, sebbene l’articolo 530 del Codice di Procedura Penale faccia ancora riferimento all’insufficienza della prova, sembra che nessuno sia più disposto a riconoscere che esiste un confine sul quale bisogna arrestarsi e il processo ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito lo dimostra.  
Condannati, poi assolti e poi condannati un’altra volta. E a ogni grado di processo, le prove diventano sempre più esili; ci si aggrappa a una piccola traccia del Dna di Amanda su un coltello da cucina che la ragazza può avere utilizzato per sgozzare l’amica o per tagliare le cipolle. Eppure, quelle tre lettere, Dna, sembrano essere la parola magica per aprire sempre e comunque lo scrigno della verità. Idolatriamo il dato scientifico come se questo, da solo, fosse capace a spiegare ogni cosa e dimentichiamo che i dati vanno interpretati. Arriviamo addirittura a mettere in secondo piano i moventi. Nel corso dei vari processi, il delitto di Perugia è stato presentato come esito di un festino erotico finito male, come violenza sessuale, fino a divenire, nella requisitoria del Procuratore Generale Alessandro Crini, l’epilogo di una lite per la pulizia della casa.  
Difficile, in queste condizioni, credere che la giustizia sapesse davvero dove stava andando. Ma non importa, basta un frammento di Dna a salvare la dignità della pubblica accusa. Nel marzo 2009, la casa di via della Pergola dove avvenne il delitto fu visitata dai ladri che rubarono il materasso su cui Meredith era stata uccisa e questo fu possibile perché la procura di Perugia, per non alterare la scena del crimine (!), aveva vietato che venissero apposte delle inferriate alle finestre. Ma si va avanti ugualmente, appellandosi all’evanescenza di qualche molecola, perché la pressione mediatica è troppo forte e nessuno vuole fare un atto di umiltà confessando che la verità può anche sfuggire. Abbiamo messo in piedi una vera industria mediatica del crimine: non c’è emittente televisiva che non abbia la propria trasmissione di «real crime». La cronaca nera diventa spettacolo, intrattenimento, morbosa esibizione di dolore; gli investigatori veri devono reggere il paragone con quelli della fiction, che non sbagliano mai, che risolvono tutto: chi mai vorrà ammettere di non essere alla loro altezza? E allora si va avanti.  
Enzo Tortora disse una volta che, in Italia, si sarebbe dovuta proibire la messa in onda di Perry Mason perché, guardando la Tv, gli italiani si facevano un’idea sbagliata della giustizia. Non immaginava che le cose avrebbero potuto ancora peggiorare. Certo, dovremo leggere le motivazioni per capire se è bastata una traccia di Dna per emettere una sentenza così pesante, ma l’impressione di una condanna ad ogni costo è forte. E a questa amarezza se ne aggiunge un’altra, più sottile: a Raffaele Sollecito verrà tolto il passaporto, mentre per Amanda, ci dice la corte, non sono necessarie misure restrittive, tanto è già a Seattle: che tu sia sospettato di aver sgozzato una ragazza a Perugia, o di aver abbattuto una funivia a Cavalese, o di aver ucciso un funzionario italiano in Iraq, il fatto di essere cittadino statunitense dà sempre una certa tranquillità. La situazione inversa, quella di straniero accusato negli Stati Uniti, è molto più scomoda: ce lo ricorda il più che controverso caso di Chico Forti, condannato per omicidio a Miami, nonostante che la giuria stessa abbia ammesso l’inesistenza di prove. 

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