lunedì 24 febbraio 2014

LA LEZIONE UCRAINA


E' sorprendente come in Ucraina la situazione si sia ribaltata in pochi giorni. Sembrava che la durissima repressione scatenata da Yanukovich , con poco meno di 100 morti, molti di più i feriti e gli arrestati, avesse decapitato la protesta o, ancora peggio, l'avesse lasciata in mano solo agli irriducibili e violenti esponenti dell'estrema destra. Evidentemente non era così, che in due giorni si è passati all'apertura del premier ucraino alle richieste europee, con indizione di nuove elezioni (a maggio) e l'adozione di riforme costituzionali che in realtà eliminassero le più recenti di sapore dittatoriale (in parte alcune erano già rientrate), fino addirittura alla destituzione di Yanukovich, la sua fuga da Kiev, la confisca della sua faraonica residenza (in un paese che è sull'orlo del default economico) , la liberazione della Tymoshenko. A proposito, come la mettiamo con questa cosetta : condannata a 7 anni per corruzione, pena definitiva, una pregiudicata, considerata dalla metà dell'Ucraina un'eroina nazionale, una perseguitata, alla quale la Merkel telefona chiedendo collaborazione per cercare che la polveriera ucraina non salti definitivamente con una vera e propria guerra civile.
Perché da quelle parti questo sembra essere il   problema più grave e di difficile soluzione (non il solo) : la divisione tra regioni, con parte della popolazione fortemente russofila (molti russi veri e propri) e l'altra invece aspirante ad un distacco maggiore dal potente vicino (da molti addirittura odiato per le repressioni delle epoche zariste e staliniane). 
Perché l'Ucraina resti unita è indispensabile a detta di molti osservatori (oggi sul Corriere sia Sergio Romano che Armellini, entrambi ex ambasciatori; ho preferito l'articolo del secondo che Romano a mio avviso esagera a volte con la real politik. Mi ritengo un realista ma lui a volte sfiora il cinismo) è indispensabile non fomentare le ali estremiste della popolazione, l'ultranazionalismo così come la partigianeria per la "santa madre Russia". Non a caso la Merkel, dopo la Tymoshenko, ha chiamato subito Putin.
Condivisibile anche la chiosa di Armellini sulla inesistente politica estera della UE...
Un'ultima considerazione. Da un po' le piazze sono in competizione con le maggioranze elettorali.  Questo sembra avvenire in paesi poco uniti e anche poco avvezzi al principo democratico per il quale, chi vince le elezioni poi governa e agli altri tocca un'opposizione da condurre nel rispetto delle regole. In alcuni paesi invece non sta andando così, e cito per esempio l'Egitto, con la destituzione di Morsi, e ora in Ucraina, dove comunque Yanukovich era il premier che aveva vinto le ultime elezioni. So bene che in Egitto a Morsi e ai Fratelli Musulmani veniva contestato il tentativo di trasformare il paese in una teocrazia, a Yanukovich di voler imporre gradualmente una dittatura filo russa. Però è un fatto che questi aspiranti dittatori o oligarchi hanno avuto un forte consenso elettorale e occupavano le loro posizioni in virtù di quello.
In Egitto la piazza ha favorito un golpe militare (il fatto che stavolta "piaccia ", perché contro a qualcuno che non piaceva, non ne cambia la natura) e in Ucraina le rgioni orientali non sono affatto contente di quanto è accaduto a Maidan e le sue conseguenze.
Ricordo quando durante le imponenti manifestazioni anti autesteriù a MAdrid, un paio di coraggosi ministri dichiararono "la sovranità è dle PArlamento, non della Piazza". Ecco, chissà se continuerà ad essere vero, almeno in Occidente.


"La faglia instabile tra l’Europa e l’Est" 

La vittoria del Maidan rappresenta un successo per la democrazia e riafferma il primato dell’Europa nella promozione dei valori fondanti della società civile. L’opposizione celebra un risultato pagato a caro prezzo e si interroga su quanto possa considerarlo definitivo. Viktor Yanukovich è sparito da Kiev lasciandosi dietro l’immagine di una spoliazione rapace: quella incredibile residenza — con il suo parco, i campi da golf e il galeone simil-spagnolo — più che al lusso un po’ paesano di Nicolae Ceausescu ha fatto pensare alla protervia pacchiana dei tanti palazzi che Saddam Hussein aveva disseminato in Iraq. Non si sa dove sia, ma è probabile che non sia riparato in Russia, come si è detto, e stia cercando di riannodare i fili di una possibile reazione partendo dalle roccaforti nell’est del Paese. Il presidente provvisorio Oleksandr Turchyonov garantisce un rapporto saldo con Yulia Tymoshenko e cerca di imprimere una sembianza di ordine a una situazione che rimane confusa ed esposta al rischio di provocazioni. Non solo da parte degli sconfitti: il peso dei movimenti dell’estrema destra nazionalista è controverso, ma il fatto che abbiano cominciato a svolgere un servizio d’ordine in accordo non si sa quanto definito con le forze di polizia dovrebbe far sollevare più di un sopracciglio. L’Ucraina non ha davvero bisogno in questa fase di risvegliare il demone dell’antisemitismo: non vorrei che i cartelli inneggianti all’ambiguo estremista nazionalista Stepan Bandera facessero apparire all’orizzonte il fantasma di un nuovo Viktor Orban (che tante preoccupazioni sta già destando in Ungheria).
Ha fatto bene Yulia Tymoshenko a chiamarsi fuori per il momento dalla contesa: avrà tempo e modo per recuperare appieno il ruolo che le compete, ma adesso le si presenta il compito forse più difficile. Quello di essere a un tempo l’icona di un movimento rivoluzionario che mira a ripristinare la legittimità democratica e il possibile punto di giunzione fra le diverse anime di un Paese che, per quanto fratturato, può ben difficilmente diventare qualcosa di molto diverso, se non a costo di prezzi che nessuno — e men che meno l’Europa — intende sopportare. È osannata dal suo popolo ma conosce e sa come trattare con la Russia; è l’alfiere di una lotta alla corruzione che vorrebbe vedere uscire di scena il gruppo di oligarchi arricchitisi all’ombra di Yanukovich, ma può contare su un suo (più o meno...) oligarca, quel Petro Poroshenko che ha finanziato la protesta e ha intanto fondato per buona misura un suo partito.
L’Ucraina resta una faglia di frontiera, fra l’area dell’influenza democratica dell’Europa e quella della residua influenza russa. Diversamente da qualsiasi altro Paese della regione, la faglia non gli corre accanto, bensì lo attraversa nel bel mezzo, e nessuna soluzione stabile può essere immaginata se non partendo da questo dato di fatto. Chi aveva pensato che la fine della Guerra fredda e la caduta del Muro avrebbero aperto la strada a una evoluzione democratica dell’insieme dell’ex Est europeo, ha trovato nella crisi ucraina una ennesima smentita: la spinta verso il ricongiungimento delle due Europe sotto le bandiere dei valori occidentali di libertà e democrazia si è andata indebolendo man mano che la Russia — che per un momento era sembrata decisa, o quantomeno rassegnata, ad avviarsi in questa direzione — ha recuperato le caratteristiche di «democrazia oligarchica» consone alla sua tradizione e tutto sommato non ostiche alla maggioranza della sua popolazione. La Polonia — e le postazioni di missili russi nell’enclave di Kaliningrad — erano sembrate a un certo momento rappresentare un punto finale di confine, ma il compromesso era in questo caso ancora possibile, stante la collocazione geopolitica e la radicata tradizione antirussa del Paese. Con l’Ucraina no: essa è al tempo stesso parte inscindibile della storia russa, come di quella tedesca e polacca. Le divisioni interne rispecchiano questa connotazione: il punto di equilibrio nella faglia dovrà passare attraverso il riconoscimento di due anime che né russi né europei sono disposti a separare.
Sebastopoli è la principale base della Marina russa. Vladimir Putin non potrà mai accettare una Ucraina nella Nato (sarebbe per lui un vulnus ben più grave di quello evitato nel sangue in Georgia), e vede nel rapporto di Kiev con l’Unione Europea il cavallo di Troia di una deriva in senso occidentale che rischia di mettere a rischio le sue esigenze di sicurezza. L’Europa, dal canto suo, non può rinunciare alla possibilità di offrire un ancoraggio democratico che corrisponde alle aspirazioni non solo della parte occidentale, ma di buona parte del Paese. Bisognerà trattare con Putin e rassicurarlo che non è necessaria la secessione della Crimea per garantire il libero accesso della flotta russa a Sebastopoli. Al tempo stesso, egli dovrà accettare di non opporsi a un più stretto legame con la Ue, cominciando dall’indispensabile supporto economico già saggiamente annunciato da Olli Rehn a Sydney. L’Ucraina ha bisogno di consolidare in tempi brevissimi la situazione interna, per mettersi nella condizione di avviare un simile negoziato che, una volta passate le elezioni di maggio, vedrà probabilmente in Yulia Tymoshenko il timoniere indispensabile. Sarà questo il modo per stabilizzare quella linea di confine all’interno di un faglia per altri versi destinata a restare aperta. Sarà un equilibrio fragile, esposto al rischio di continue strumentalizzazioni, ma si tratta anche dell’unica via d’uscita consentita dal contesto geopolitico dell’Europa.
Una breve notazione conclusiva italiana. La Ue ha parlato quasi esclusivamente attraverso la voce di Angela Merkel, con il controcanto francese e polacco. Che il fatto rispecchi i rapporti di forza al suo interno, e lo specifico interesse tedesco nell’area, è pacifico; il rapporto con Mosca e con Kiev è tuttavia strategico per l’Italia e, senza mettere in discussione percorsi annunciati che rispondono anche al nostro interesse, dovremmo cogliere l’occasione per una voce un po’ più assertiva nel reclamare una conduzione della politica estera comune dell’Unione più collegiale e meno «per delega».

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