Curioso di storie. Mi piace ascoltarle e commentarle, con chiunque lo vorrà fare con me.
lunedì 17 febbraio 2014
OSTELLINO CERCA DI DEMITIZZARE IL DIRITTO DEL LAVORO PER LEGGE
Stavolta Ostellino si supera. Torna su un argomento a lui caro, e quindi noto ai suoi lettori, vale a dire la critica al mito del Lavoro che proviene dallo Stato, e stavolta approfondisce di più il problema CULTURALE che c'è dietro questo falsa vulgata, l'indottrinamento dh mezzo secolo di narrativa marxista e dintorni imposta nelle nostre scuole e ai giovani dalla fine degli anni '60 in poi, e che tuttoggi è prevalente, nonostante il disastro sovietico abbia incrinato quella narrazione e ridato fiato al pensiero liberale. Ma siccome fa molto più figo immaginare un mondo che non c'è, dove l'uomo è il "buon selvaggio "di Rousseau e non quello "cattivo" hobbsiano, dove una entità superiore, lo Stato, deve provvedere ai nostri bisogni, dandoci casa, lavoro e cure, ecco che, come diceva il mio arguto amico, Sergio Prisco, le parole d'ordine dei progressisti sono assai più suadenti di quelle liberali. Loro uguaglianza e noi merito, loro solidarietà e noi responsabilità.
Non c'è lotta, ammettiamolo Anche se poi sono le democrazie liberali quelle nelle quali il resto del mondo, se e quando può, cerca di andare per fuggire da una realtà di povertà e di illibertà.
Ricordate il Muro ? Certo non serviva per evitare che fossero gli occidentale ad espatriare ad Est...
Da leggere, fidatevi.
"Il diritto al lavoro per legge. L’illusione che fa male agli italiani"
Ogni volta che, da noi, l’esperienza — ciò che Hegel chiamava le «dure repliche della storia» — sconfessa le utopie, e i sogni, della cultura politica egemone, detta progressista, spunta qualcuno a ricordare le convenzioni — dalla nostra Costituzione alla Dichiarazione (dell’Onu) sui diritti universali dell’uomo a quella europea i cui testi smentirebbero l’esperienza. Grazie a tale vulgata, il lavoro — ancorché nella «società aperta» di democrazia liberale e in regime capitalista e di mercato — non è una merce, esposta alla domanda e all’offerta, ma sarebbe un diritto da garantire. Insomma, se la machiavelliana realtà effettuale non coincide con la realtà come dovrebbe essere, tanto peggio per lei.
C’erano voluti 1.500 anni — peraltro spesso scanditi dai massacri perpetrati dagli stessi che si professavano eredi del messaggio morale cristiano — prima che Thomas Hobbes smentisse che l’uomo, per natura, o per ragioni religiose, sia «buono»; e che, per l’Inghilterra e per l’Europa del suo tempo, sconvolte (pour cause ) dalle guerre di religione, teorizzasse l’esigenza di un’autorità, il Leviatano (1561) che, con la forza, garantisse la sicurezza ai propri cittadini; i quali, a questo fine, avrebbero dovuto rinunciare ai propri diritti, abdicando alla libertà di farsi giustizia da sé di cui godevano nello stato di natura.
Sono passate altre centinaia d’anni e il pensiero politico ha sviluppato la cultura e le istituzioni che conosciamo, sostituendo alle prerogative autoritarie del Leviatano hobbesiano quelle consensuali della «società aperta» e della democrazia liberale. Puntuale, è emersa un’altra utopia, il comunismo, col programma di creare una realtà e un uomo nuovi e diversi da quelli borghesi. La fine dei modi di produzione capitalistici e la scomparsa della proprietà privata, cioè del supposto sfruttamento dell’uomo sull’uomo, prodotte dalla rivoluzione proletaria; l’abolizione del mercato e l’instaurazione della pianificazione centralizzata nella produzione e nella distribuzione che ne sarebbero seguite avrebbero realizzato una libertà più vera. Ma non è stato così, bensì è accaduto l’opposto: la nascita e lo sviluppo di una delle peggiori tirannie che l’umanità abbia conosciuto. Né sono state sufficienti le «dure repliche della storia», sotto il cui peso è crollato il comunismo, a provare che solo con l’eliminazione delle libertà e dei diritti individuali il comunismo aveva realizzato la piena occupazione, il cosiddetto diritto al lavoro, ma al costo di generare, più che l’equa redistribuzione di una ricchezza che non era in grado di produrre, la redistribuzione generalizzata della povertà da parte di un sistema economico fallimentare. Malgrado ogni evidenza, il lavoro è rimasto, nel testo della Costituzione repubblicana e nelle convinzioni di molti italiani, un diritto da garantire, non una merce, pur nel contesto del welfare . Permane, a pesare sulle capacità di crescita e di sviluppo del Paese, tale permanente contraddizione con l’appartenenza dell’Italia al mondo capitalista e di mercato, aperto alla competizione e alla concorrenza globali.
È pur vero che, da sempre e ovunque, gli uomini tendono, istintivamente, a rifugiarsi nell’utopia del dover essere, soprattutto quando la realtà è complessa, e a preferire la sicurezza, ancorché nella schiavitù, alla libertà e alla responsabilità. Ma se è così, non si capisce, allora, perché altri Paesi, appartenenti al nostro stesso mondo, navighino nel realismo, e solo l’Italia nell’utopia novecentesca per di più sconfessata dalla storia.
La spiegazione sarebbe che gli italiani sono in ritardo, rispetto agli altri popoli nel capire come stanno effettivamente le cose? Che sono un popolo antropologicamente inferiore? O non è probabile, piuttosto, che le carenze della cultura politica diffusa e egemone siano attribuibili all’insegnamento a tutti i livelli in cui è praticato nelle scuole?
La domanda che ci si deve porre diventa, così, questa: perché nei nostri licei e nelle nostre università non si studiano, non si analizzano e, spesso, manco si leggono le opere di Machiavelli? Perché molti italiani neppure sanno chi egli è stato per il pensiero politico della Modernità? L’ostracismo nei confronti dell’autore del Principe ha origine nel fatto che egli è l’autore di libri messi all’indice dalla Chiesa, ovvero perché è il teorico del realismo, della separazione e della distinzione liberale, come avrebbe spiegato Croce, fra Etica e Politica, mentre Togliatti riteneva che la confusione fra l’una e l’altra fosse congeniale e utilmente strumentale al pensiero del «nuovo Principe» (gramsciano), il Partito comunista?
La risposta sta, forse, nel fatto che, in Italia, fra la prassi religiosa e morale della Chiesa della Controriforma — che, se necessario, indulge volentieri al realismo, ma evita contemporaneamente di parlarne — e la prassi politica e moralistica del comunismo, ambiguamente oscillante fra parlamentarismo praticato e rivoluzionarismo promesso, ci sono state più affinità e coincidenze di quanto si creda. Il realismo di Machiavelli era in contraddizione sia con l’utopismo marxiano, sia con la togliattiana doppiezza politica del Pci; oggi, lo è anche rispetto al trasformismo dei suoi eredi. Il comunismo — avendo abbandonato la concretezza storica dello sviluppo economico, sociale e politico della democrazia liberale e del capitalismo, per un dover essere rivoluzionario e palingenetico — temeva, ieri, quella «ruina» che Machiavelli aveva pronosticato a chi avesse scelto il dover essere rispetto alla «realtà effettuale»; il post comunismo teme, oggi, che il realismo machiavelliano, così lontano sia dal trasformismo, sia dal rivoluzionarismo, pregiudichi la propria credibilità riformista e, al tempo stesso, cancelli la speranza — mai del tutto abbandonata, anche se foriera di lacerazioni interne al Partito democratico — nella rivoluzione e nel trionfo del proletariato.
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Ostellino sei sempre il meglio
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