sabato 15 febbraio 2014

OSTELLINO , I DECRETI CHE NON CREANO LAVORO E LA DIFESA DELLA REALTA'

 
Prosegue, lodevolmente,  la predicazione liberale e liberista - cum iuicio- di Piero Ostellino nella sua rubrica del Corriere della Sera, nella quale il nostro, un po' come il Catone romano che, abbastanza vanamente, tentava di difendere le virtù repubblicane, cerca di ricordare alcuni punti chiave della realtà storica e sociale che riguardano un po' tutti, non solo noi italiani e cioè :
1) il lavoro non lo crea lo Stato. L'esperienza fallimentare dei paesi che hanno applicato il socialismo reale sta lì a dimostrarlo. Anche la Cina comunista da tempo ha aperto al mercato sia pure a suo modo. 
2) il mercato non è né buono né cattivo. Semplicemente E'
3) Allo stesso modo il mondo non è come lo vorremmo. Quindi, quando affrontiamo problemi grandi e delicati come l'immigrazione, è lodevole se noi nati nei continenti giusti ci sforziamo di essere generosi, ma senza perdere il senso della realtà.
Ciò posto, Ostellino non nega l'esistenza di un welfare, che soccorra coloro che, nella competizione economica, restano indietro. Ma in questo caso l'intervento statale è sussidiario, viene dopo, lasciando per il resto liberi uomini e imprese di agire e limitando la legislazione a ciò che è utile affinché il mercato operi con regole comuni per tutti gli operatori e vigilando perché ciò effettivamente avvenga.
Lo so, detta così è facile, però la via maestra per chi crede in uno stato Liberale di Diritto è sostanzialmente questa.
Ovviamente Ostellino lo spiega meglio.
Buona Lettura

Il lavoro non si crea per decreto legge
 

Se l’economia di un Paese non è in grado — con una autonoma e adeguata offerta — di soddisfare la domanda di lavoro, è del tutto inutile, se non addirittura controproducente, che si incrementi la domanda, aprendo le frontiere ad una immigrazione non contingentata dall’offerta. Questo è il senso teorico e pratico del referendum col quale gli svizzeri hanno bocciato l’immigrazione senza limiti e auspicato l’introduzione, da loro, di «quote» all’immigrazione che rispondano ad esigenze economiche.
Chiamare razzismo l’elementare regola economica, razzista chi ragionevolmente vi si adegua e solidarietà l’assorbimento indiscriminato di manodopera — che, poi, non si è in grado di impiegare proficuamente — o è un nonsenso logico, prima ancora che economico, o è la manifestazione della cattiva coscienza di chi vede nell’immigrazione non regolata la possibilità di utilizzare manodopera a buon mercato, di sfruttare gente disperata — certa imprenditoria, soprattutto al Sud; la criminalità organizzata diffusa — o l’occasione per crearsi un bacino politico e elettorale a spese dello Stato (certa sinistra). Importare, senza limiti, immigrati, per poi, non potendo dare loro un lavoro, lasciarli a lavare i tergicristalli delle auto ferme al semaforo e costretti a versare i soldi racimolati a qualcuno che si arricchisce non lavorando, non è solidarietà. È una vergogna sociale e morale .
In una economia di mercato — che, poi, vuol dire in una «società aperta», democratico-liberale — il lavoro non è un diritto come si sostiene demagogicamente, ma una merce, esposta, come ogni merce, alla legge della domanda e dell’offerta. Il mercato non è né morale, né immorale. È. Non solo la migliore tecnica di produzione della ricchezza, ma anche il più efficace veicolo di libertà che l’uomo conosca. Passare da un dato di fatto (la descrizione della realtà come è) a un giudizio di valore (la prescrizione di una realtà come si vorrebbe che fosse) è un nonsenso logico già condannato da Hume. Per aver ignorato la sua «legge», il comunismo è fallito e l’Unione sovietica si è impoverita e dissolta. In una democrazia liberale, agli eventuali danni collaterali che il mercato può produrre provvede lo Stato sociale. Il resto sono chiacchiere.
Caro presidente Napolitano, la sua invocazione a un New Deal europeo — apparentemente generosa, ma, ahimè, figlia di quella stessa cultura — è, soprattutto con l’aria di crisi che ancora tira, mi perdoni la franchezza, aria fritta novecentesca; è tardo keynesismo, la versione, democratico-liberale, del fallimentare dirigismo comunista. Il lavoro non lo si crea con i decreti legge governativi e, tanto meno, con fughe in avanti dell’Unione europea, ma liberalizzando le economie dei Paesi europei, liberando le risorse (ancora) presenti nelle loro società civili. Il keynesismo — se non ci sono soldi — non produce lavoro, ma burocrazia, spesa e debito pubblici. L’Italia — che è finita nei guai, e ancora ci si trova, proprio perché ostaggio di tale dottrina — dovrebbe, almeno, ammonirci tutti, a cominciare dal mondo della politica e delle istituzioni, a non cadere negli stessi errori.


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