Curioso di storie. Mi piace ascoltarle e commentarle, con chiunque lo vorrà fare con me.
sabato 15 febbraio 2014
GLI INDIANI SUI MARO' FORSE CI RIPENSANO : TROPPO DEFINIRLI PIRATI O TERRORISTI
Il Corriere della Sera si è rimesso da un po' a seguire seriamente la vicenda dei due Marò, e lo fa con professionalità affidando reportage e commenti al bravo Danilo Taino di cui abbiamo riportato diversi articoli (http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/01/lindia-e-inaffidabile-che-scoperta.html ; ma anche la Stampa : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/02/volete-che-li-decoriamo-e-in-india-il.html ).
Ultimamente sulla vicenda accoglie anche le osservazioni di Antonio Armellini, ambasciatore italiano in India dal 2004 al 2008 e quindi forte di una conoscenza di quel paese preziosa per decriptare meglio la loro condotta. Per esempio, lo spropositato orgoglio nazionale - probabilmente alimentato da secoli di colonialismo - che fa da collante ad un continente che se no, per motivi di razze, religioni e storia farebbe (fa) molta fatica a restare unito. Questo orgoglio determina poi una tendenza alla rigidità negoziale che, riferisce sempre l'ex ambasciatore, è caratteristica (non proprio un pregio) degli indiani. Aggiungerei che è di tutta evidenza, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l'ingerenza politica sulla condotta dei giudici, che altrimenti come si spiega che ci siano voluti due anni per formulare un capo di imputazione ? Per partorire poi l'aborto di cui pare oggi si stiano pentendo, data l'enormità della cosa : giudicare due militari di un altro Paese, in missione per operazioni di difesa contro la pirateria, applicando una normativa volta a sanzionare e reprimere proprio quel fenomeno ? L'Italia paese amico dei pirati ? Terrorista ?
Nemmeno nel nostro sport preferito di autoflegellazione nazionale riusciamo ad immaginare una cosa del genere.
E stavolta anche l'Uniore Europea e la Nato hanno parlato, facendosi forza proprio dell'abnormità di una simile imputazione. L'ONU invece continua a rivelarsi quella che è : un luogo che quando verrà chiuso per dichiarata inutilità e vomitevole ipocrisia sarà sempre troppo tardi.
Ciò posto, la situazione è sempre ingarbugliata e si continua a parlare di strategie che ben potevano essere attuate molto tempo fa, appena vista la mala parata a livello diplomatico-bilaterale. Leggo dell'arbitrato cui l'India non si potrebbe sottrarre, con i nostri due Marò che finalmente possono uscire dall'India, sia pure per trasferirsi nel paese dove dovrà celebrarsi il giudizio internazionale. Questo dopo due anni...
In diversi dicono, e lo condivido, che non è questo il momento di discutere degli errori commessi.
Però prima o poi bisognerà farlo e chi ha sbagliato sarà giusto che ne risponda (almeni quelli che ancora non si sono dati...).
Buona Lettura
"Il difficile percorso da compiere per recuperare gli errori sui marò"
È davvero zoppicante l’impianto accusatorio costruito dalla Nia (National investigation agency) nei confronti di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Una semplice lettura del testo della Convenzione sulla sicurezza della navigazione marittima dell’Imo (International maritime organization) — firmata da Italia e India e recepita da questa nel suo ordinamento interno con il «Sua Act», la legge antiterrorismo e antipirateria indiana — permette di verificare come solo con la massima fantasia si potrebbe pensare di applicarla al caso dei nostri fucilieri di marina. Un capo d’accusa formulato su questa base non dovrebbe trovare spazio in alcun tribunale.
Cominciano a levarsi voci a Delhi che chiedono per quale ragione si sia deciso di affidare proprio alla Nia la vicenda, piuttosto che al Cbi — il Central bureau of investigation —, che è l’organo di polizia competente a livello centrale dell’Unione indiana. Secondo il Times of India , potrebbe essere stato il ministero dell’Interno, irritato con il Cbi per contrasti intercorsi in un’altra vicenda recente, ad escluderlo per ricorrere alla Nia, senza stare troppo a guardare alle conseguenze. Una volta presa questa via, la proverbiale intransigenza negoziale indiana ha fatto il resto e il ministro dell’Interno ha mantenuto una linea dura, ignorando le obiezioni e le argomentazioni del suo collega degli Esteri. Un problema di faccia, ma non solo: chiunque abbia avuto qualche dimestichezza con il Paese, ha potuto provare su di sé come la parola «compromesso» suoni ostica alle orecchie indiane, al limite dell’autolesionismo. Sia come sia, il pasticcio rimane e il governo sembra cominciare a rendersene conto.
La Corte suprema potrebbe avere buon gioco nel respingere il capo d’imputazione formulato dalla Nia, riportando il processo nell’alveo del Codice penale indiano e del Cbi. Con un po’ di machiavellismo — anche se i machiavellismi non hanno posto nel mindset indiano — si potrebbe immaginare che la scelta della Nia avrebbe avuto l’obiettivo non detto di arrivare al respingimento del capo d’accusa da lei formulato, così da favorire un rinvio della decisione a dopo le elezioni politiche di aprile. La vicenda della Enrica Lexie è seguita in maniera distratta dall’opinione pubblica indiana e non trova grande spazio sui media; essa conserva per contro intatto il potenziale di disturbo in una campagna elettorale che vede «l’italiana» Sonia Gandhi in difficoltà ed esposta ad accuse di favoritismo nei nostri confronti che, per quanto inventate, rischiano di costarle voti. Ad elezioni concluse, il tema perderà la sua capacità dirompente sul piano interno; paradossalmente poi, se vittorioso dovesse risultare il nazionalista hindu Narendra Modi, la soluzione del caso potrebbe farsi più facile. A quel punto la «carta italiana» avrebbe esaurito per lui la sua utilità e l’interesse a porre fine a un guazzabuglio che danneggia l’immagine esterna del Paese potrebbe farsi prevalente.
Qualora la Corte decidesse di ritenere il capo d’accusa della Nia, le sarebbe facile sostenere che, avendo soddisfatto la nostra richiesta prioritaria in ordine alla pena di morte, la questione della giurisdizione non si pone più e il processo può andare avanti. Avere insistito a lungo sulla minaccia della pena di morte ha trasformato un’ipotesi di scuola cui mai si sarebbe pensato seriamente in India, in uno strumento tattico da usare nei nostri confronti; forse ritenevamo che agitando un tema fortemente sentito dall’opinione pubblica mondiale, avremmo avuto un mezzo di pressione in più nei confronti degli indiani. Ma, se davvero questo fu all’epoca il ragionamento, sarebbe la dimostrazione di quanto inadeguata sia stata la nostra conoscenza delle caratteristiche politiche e psicologiche di quel Paese.
Alla conferma del «Sua Act» dovremmo opporre una forte campagna di protesta in tutte le sedi internazionali: pena di morte o no, processare per terrorismo due militari in servizio rimane inaccettabile. La Convenzione sulla sicurezza della navigazione contiene una clausola di arbitrato obbligatorio nel caso di conflitto sulla giurisdizione, o altra controversia: la parte indiana non potrebbe sottrarvisi, e dovremmo ricorrervi indipendentemente e prima ancora delle altre sedi di cui ha parlato il ministro Emma Bonino.
L’insistenza sul tema della pena di morte ha fatto passare sotto silenzio un altro aspetto importante. Il processo, se alla fine si terrà, si potrebbe concludere con una condanna a dieci anni, da scontare in Italia in base all’accordo di cooperazione giudiziaria fra i due Paesi. Difficile immaginare Latorre e Girone languire in cella una volta rientrati. In tal caso, il risultato sarà che non solo avremo accettato la condanna penale di due militari per atti compiuti nell’interesse del servizio, ma ci sottrarremo ad un preciso obbligo sancito dall’accordo. Un danno da poco in termini politici; non irrilevante sotto il profilo del rispetto dei nostri impegni internazionali.
I commenti di Ban Ki-moon, poi corretti, hanno sollevato un polverone inutile: gesti di stizza autolesionistici servono solo a mettere a nudo quanto sia debole la nostra visione del ruolo dell’Italia nel mondo. Il Segretario generale — a parte la sua ben nota prudenza — riflette il consenso prevalente degli Stati membri: avremmo dovuto già da molto tempo denunciare all’Assemblea generale l’inammissibilità del comportamento di un Paese che si vuole tutore dell’ortodossia delle Nazioni unite, che al tempo stesso attenta all’efficacia della lotta mondiale contro la pirateria e ignora le più elementari norme di diritto internazionale sequestrando un ambasciatore straniero. Decidemmo all’epoca che la battaglia sarebbe stata impari; fu probabilmente un errore e il cambio di passo, anche se tardivo, è importante. Purché venga mantenuto senza esitazioni.
Analogo discorso vale per l’Unione europea e la Nato. Rispetto alle deboli mosse iniziali la nostra azione ha prodotto un risultato visibile sul piano politico, che Delhi non può fingere di ignorare. Attenzione però: quando da questo si volesse passare ad altri mezzi come la minacciata sospensione del negoziato sull’accordo di libero scambio, la solidarietà dei nostri partner potrebbe farsi minore: molti hanno interessi in India ben maggiori dei nostri e pochi sono disposti a compromettere seriamente le loro possibilità in quello che rimane uno dei mercati più promettenti dell’Asia. Quando la crisi sarà superata c’è da augurarsi che sapremo compiere uno sforzo serio — con buona pace delle ricostruzioni singolari dell’ex ministro Giulio Terzi — per recuperare sul mercato indiano una posizione corrispondente non solo alla storia recente delle nostre relazioni industriali, ma anche alle notevoli e sottoutilizzate potenzialità rispettive. Memori del nostro passato (l’India ha conosciuto la motorizzazione grazie all’Italia: le due ruote con Piaggio e Innocenti, le quattro ruote con Fiat. Oggi non più), gli indiani si chiedono dove mai siamo finiti.
In tutto questo, le norme che regolano l’impiego dei nostri militari sulle navi mercantili continuano a non essere aggiornate. C’è stato qualche scambio di battute polemiche fra Emma Bonino e Ignazio La Russa e nulla più. A quando il prossimo incidente?
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