Ieri la stampa riportava questo botta e risposta tra USA e Russia, con i primi ad annunciare l'esclusione di Putin dal prossimo G8 e i secondi a rispondere "non sarà una tragedia" . Un sarcasmo che, francamente, ho condiviso, non per simpatia per i russi, che, causa 70 anni di dittatura comunista e di socialismo "reale", non ho (mentre invece amo la letteratura russa : Toltoij, Dostojevskij, Puskin, Bulgakov...), ma perché penso che Obama abbia avuto e abbia una visione della politica internazionale costituita da un mix pericoloso di ottimismo e confusione. Non che le situazioni che si presentano siano semplici, ma quando mai lo sono state ? Il nodo, credo, sta nella credibilità, nel convincere gli avversari che "oltre quella linea" l'America reagirà. Reagan, ma anche Clinton, e poi i Bush, padre e figlio, erano così. Obama no. La ricordate la red line delle armi chimiche in Siria ? In quell'occasione fu proprio Putin ad offrirgli una exit strategy, con la storia del disarmo dell'arsenale chimico di Assad, che poi chissà a che punto è, ma il mondo, in quell'occasione, non ha avuto dubbi su chi fosse stato il vincitore politico di quel momento di tensione.
Sulla questione della Crimea, la "disinvoltura" di Putin è estrema, ma alla fine la storia particolare di quella regione, con il 70% della popolazione russofona, e la presenza della flotta russa a Sabastopoli, può far pensare all'annessione come ad male inevitabile e minore, SE FINISSE QUI.
Quello che invece i paesi ex URSS e l'Occidente si chiedono è se Putin intende fermarsi, o approfittando di ogni crisi politica interna - legata anche alla perdurante cattiva congiuntura economica - pensi di ripetere lo schema in altri paesi in una sorta di Risiko che potrebbe arrivare ad estendersi ai paesi baltici, specie in quelli, come l'Estonia, dove i russi sono stavolta minoranza, ma folta (schema già applicato in Georgia).
Siccome si tratterebbe, nel caso delle nazioni baltiche, di paesi aderenti alla Nato, la situazione potrebbe diventare drammatica, perché a quel punto non basterebbero le sanzioni economiche, l'Alleanza prevede l'aiuto militare !
Roberto Toscano, esperto di politica estera della Stampa, già ambasciatore italiano in Asia e diplomatico in URSS, scrive oggi un interessante editoriale su La Stampa in cui non esita a parlare di neo imperialismo RUSSO di Putin. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con l'Unione Sovietica e l'idea di esportare il comunismo nel mondo. L'idea comunista è finita, ha fallito e sono in pochi a rimpiangerla anche a Mosca. No, quello che Putin ha recuperato è l'orgoglio nazionalistico e l'idea della Grande Russia, con il suo storico complesso di accerchiamento, da est e ovest, e quindi il vivere come una minaccia l'estendersi dell'Unione Europea, tanto più se accompagnata all'entrata dei paesi limitroini nella NATO.
Se le sanzioni economiche e politiche (quali l'esclusione dal G8 appunto) possano essere un deterrente valido per frenare questa politica, Toscano non lo dice, esprimendo peraltro grande preoccupazione per la possibile escalation russa.
Altri commentatori si dividono, alcuni sostenendo che la debolezza industriale della Russia non potrà essere alla lunga supplita dalla ricchezza derivante dall'esportazione di energia (petrolio e gas, che in caso di riduzione delle importazioni occidentali, potrebbero essere maggiormente venduti in Asia o gli altri mercati emersi), altri invece che il fiato di Putin sia più lungo di quello occidentale, anche perché deve fare meno i conti con la propria opinione pubblica, che la Russia continua ad essere un paese non propriamente democratico.
Certo non come lo intendiamo da noi.
Buona Lettura
Il Neo-imperialismo di Putin
Ma chi è, e soprattutto cosa vuole, Vladimir Putin?
I paralleli storici si sprecano, e non manca qui chi lo definisce - rievocando l’Anschluss, l’annessione dell’Austria «su richiesta della popolazione» - un nuovo Hitler, oppure uno Stalin redivivo. Ma anche volendo lasciare stare queste opinabili banalizzazioni delle tragedie del XX secolo, rimane una questione di fondo: si possono definire il progetto politico di Putin, e l’ideologia che lo sostiene, come «neo-sovietici»?
Lo farebbero pensare sia le origini, diciamo professionali, del Presidente russo (il KGB) sia il metodo unilaterale, spregiudicato e insensibile a limiti e regole del suo comportamento sul piano internazionale.
Ma la risposta, se ci spostiamo dai dati biografici e dai metodi usati, non può essere piattamente affermativa.
Certamente Putin non può non rendersi conto dell’impossibilità di ricreare l’impero sovietico. Troppo impari sono i rapporti di forza, sia militari che economici, non solo con gli Stati Uniti, ma con la stessa Europa, per non parlare delle potenze emergenti, in primo luogo la Cina. E soprattutto, il progetto sovietico è fallito - cosa che risulta chiara a tutti, dirigenti e cittadini comuni - perché si basava su un’ideologia, il comunismo, che da tempo, anche prima del crollo dell’URSS, era diventata vuota liturgia con scarsissima presa reale sulle coscienze dei cittadini sovietici.
Putin non vuole rilanciare l’URSS, vuole rilanciare la potenza russa. Riprendendosi l’Ucraina, non ha voluto avviare un’impensabile e insostenibile ricostruzione dell’Unione Sovietica, ma una re-integrazione della Russia «storica», e soprattutto prendersi una popolarissima rivincita contro l’umiliazione della fine non del comunismo (per cui non vi sono in Russia molte nostalgie) ma della superpotenza sovietica.
E lo fa in modo esplicito, con un richiamo alle tradizioni russe pre-rivoluzionarie, in primo luogo la religione ortodossa, e addirittura a pensatori anticomunisti, e antisovietici, che in esilio in Occidente richiamavano i russi ad abbandonare l’ideologia marxista (di cui denunciavano le radici non-russe, spesso anche con riferimenti al ruolo degli ebrei) e a ricollegarsi alla loro vera identità, quella della Russia eterna.
Nel discorso di Putin al Parlamento del 13 dicembre scorso (l’equivalente russo del Discorso sullo stato dell’Unione americano) troviamo un attacco al relativismo («un’inconcepibile equiparazione fra bene e male») promosso dagli intellettuali contro il sano buon senso della gente comune; un richiamo ai valori tradizionali («i valori della famiglia tradizionale, di una vita umana autentica, inclusa la vita religiosa, una vita non solo materiale ma anche spirituale»), e anche: «E’ vero, si tratta di posizioni conservatrici, ma - per citare le parole di Nikolai Berdiaev - essere conservatori non significa impedire di andare avanti o verso l’alto, ma opporsi ad andare indietro o verso il basso, verso le tenebre del caos, verso un’esistenza primitiva».
Per capire le implicazioni di questi riferimenti ideologici, basti ricordare che negli scritti di Berdiaev (filososo russo, nato a Kiex nel 1874, morto nel 1948, religioso ortodosso ndC) troviamo l’affermazione che i russi non vogliono una democrazia umanista, e nemmeno lo stato di diritto, e che lo Stato deve lasciare ai cittadini la libertà spirituale, riservandosi però il monopolio incontrastato del potere.
Per capire quanto queste impostazioni chiaramente reazionarie siano radicate non è necessario risalire a pensatori della prima metà del secolo scorso (a loro volta diretti discendenti degli slavofili del XIX secolo), ma basta constatare che questo filone nazionalista e tradizionalista non è mai veramente venuto meno, nemmeno negli anni più duri del monopolio politico del Partito comunista. Quando Hitler, nel giugno 1941, attaccò di sorpresa l’URSS, Stalin - dopo un’eclissi di qualche giorno - rivolse il suo primo messaggio al popolo sovietico iniziandolo non con il prevedibile e rituale «Compagni», ma con «Fratelli e sorelle», nel più antico, tradizionale stile della religione ortodossa. Sapeva cosa era reale, per i russi, al di là e al di sotto del ronzio onnipresente e svuotato di significato della propaganda ufficiale.
E come dimenticare Solzhenitsyn, grande dissidente, eroico paladino della libertà di coscienza e nemico della menzogna del regime? Nella sua «Lettera ai dirigenti dell’URSS» del 1973 Solzhenitsyn esortava il vertice comunista ad abbandonare l’inautentico e inefficace messaggio marxista-leninista, sottolineando che l’unico modo per ridare coesione e forza allo Stato era attingere nuovamente alle profonde, inesauribili radici dell’identità e della grandezza russa.
Putin sta rispondendo oggi affermativamente al messaggio di Berdiaev e Solzhenitsyn, ma lo fa senza la loro sofisticazione intellettuale e livello morale, sostituiti dalla spregiudicatezza tipica di un professionista dell’uso della forza, con o senza copertura legale, e anche uno stile personale «macho», con apparizioni a torso nudo che fanno ricordare i cinegiornali di una certa battaglia del grano in Italia.
Pessime notizie per il mondo, che dovrà faticare non poco per trovare il giusto equilibrio fra la fermezza necessaria a mettere limiti all’unilateralismo neo-imperiale russo e il dovere di trovare il modo di ricostruire un rapporto quanto meno di convivenza con un Paese che può essere ignorato solo con costi molto alti, sia in termini economici che di sicurezza. Non è facile, in particolare, prescindere dal ruolo russo (pensiamo al Medio Oriente), ma è oggi molto problematico vedere come e quando questo ruolo potrà essere riattivato sulla base di un dialogo.
Da parte loro gli americani - dopo anni in cui anche i dipartimenti universitari di «Russian studies» stavano languendo per mancanza di fondi e di studenti - stanno già ricominciando ad interessarsi alla Russia.
Nessun commento:
Posta un commento