domenica 23 marzo 2014

PUTIN SI ACCONTENTERA' DELLA CRIMEA ?

 
Non posso sapere se nello scrivere il suo odierno editoriale sul Corsera Angelo Panebianco avesse anche in mente Sergio Romano , che, a mio parere, che pure mi ritengo un realista, esagera decisamente nella sua adesione alla più cinica versione della cd. RealPolitik. 
Nel valutare la situazione in Ucraina e in generale nell'area est europea, Panebianco invita a non dare troppe cose per scontate, e tra queste il fatto che un equilibrio alla fine si troverà sempre, e che le pulsioni della gente comune non contino nulla nell'evoluzione delle situazioni. 
Personalmente ho vissuto come inevitabile ll ritorno della Crimea nella Russia. Decisive la presenza di una chiara maggioranza russa tra la popolazione e il fatto che Sebastopoli costituisca lo sbocco russo sul Mar Nero. In altre regioni però non si presentano le stesse condizioni, che la parte di popolazione russa è minoranza, ancorché a volte anche consistente (Estonia,regini est dell'Ucraina), e che i paesi baltici hanno aderito alla Nato e quindi hanno DIRITTO alla protezione degli altri paesi dell'Alleanza. 
Questo tratterrà Putin dal non favorire e/o approfittare di disordini creati in quei paesi dai "fratelli russi" ? 
C'è da sperarlo ma esserne sicuri sarebbe troppo ottimistico
Buona Lettura 


all’improvviso la pace fredda 

 
Non sappiamo ancora dove si fermerà alla fine il pallino, quale nuova fisionomia assumerà l’equilibrio europeo quando e se si placheranno le convulsioni innescate dalla crisi ucraina e dalla riconquista russa della Crimea. Sappiamo però che stiamo assistendo a un’altra svolta della storia. Come accadde con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 (che mise termine alla Guerra fredda) o con l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono nel 2001 (che inaugurò la stagione della guerra globale al terrorismo islamico), la crisi ucraina cambia regole del gioco, rapporti di forza, equilibri. I normali affari e le normali relazioni diplomatiche ne escono sconvolte.
Un gioco di azioni e reazioni si è messo in moto. Come ha documentato sul Corriere di ieri Luigi Offeddu, movimenti di truppe euro-americane potrebbero presto interessare i Paesi baltici e la Polonia, membri della Nato e della Unione Europea, che chiedono protezione temendo le prossime mosse russe. In tutti i territori dell’ex Unione Sovietica, e anche in alcuni Paesi ex satelliti dell’Urss, ove esistono minoranze russe (già in agitazione a seguito della crisi ucraina e forse già pronte a chiedere l’aiuto della madre patria), come nell’Est russofilo dell’Ucraina, ci sono decine di micce già innescate e pronte a esplodere.
La caratteristica delle crisi internazionali più pericolose sta in questo: nessun governo vuole spingere la situazione fino al punto di non ritorno ma tutti reagiscono alle mosse degli altri e, alla fine, il rischio della perdita di controllo diventa elevato.
Un errore che spesso commettono coloro che guardano i rapporti internazionali «dall’alto», dalla prospettiva dei governi e dei loro corpi diplomatici o dei manager delle grandi imprese che operano nell’economia globale, consiste nel pensare che la politica internazionale sia, nella sua essenza, solo una faccenda di business e diplomazia, giochi che uomini sufficientemente razionali, esperti e informati, sono in grado di controllare. L’idea è che, comunque, dato che ognuno ha troppo da perdere, un accordo alla fine si troverà, un punto di equilibrio su cui tutti finiranno per convergere dovrà ricostituirsi.
Non sempre sbagliata, questa visione è troppo unilaterale. Non tiene conto del fatto che, spesso, ciò che impedisce di trovare il punto di equilibrio, di ricostituire un accordo, tacito o esplicito, è la reazione delle persone comuni. Se si adotta la prospettiva «dal basso», si capisce perché le crisi internazionali possano degenerare, sfuggire al controllo: le persone comuni poco sanno, per lo più, degli equilibri internazionali o dei grandi interessi economici in gioco. Esse si preoccupano delle circostanze in cui si trovano a vivere. E non è vero, come suppongono coloro che prediligono la prospettiva dall’alto, che quelle persone siano, tutte quante, solo pupazzi manovrabili a piacimento da parte dei governi.

Si prenda, appunto, il caso dell’Ucraina prima della crisi. Vista nella prospettiva dall’alto, la situazione ucraina era chiara. Conveniva ai governi europei soddisfare almeno in parte le aspirazioni degli ucraini filoccidentali (dando magari loro quel sospirato accordo di associazione con la Ue con cui alimentare le speranze di migliori condizioni economiche future), senza però spingersi fino al punto di negare alla Russia il diritto di mantenere un ruolo politico in Ucraina, giustificato dalla presenza di un trenta per cento di ucraini di madrelingua russa, e senza negare le sue «buone ragioni» geopolitiche, la sua necessità di disporre di una cintura di «stati cuscinetto», Ucraina in testa, fra il proprio territorio e quelli della Nato. Ma non si erano fatti i conti con l’oste, ossia con gli ucraini: da un lato, con la paura (legittima, dal loro punto di vista) degli ucraini russi che l’equilibrio prima o poi si spezzasse spostando l’intero Paese, definitivamente, nell’orbita occidentale e, dall’altro, con la volontà degli ucraini occidentali, dopo avere subito secoli di autocrazia zarista, più settanta anni di «paradiso» sovietico, di non avere più nulla a che spartire con i russi. Mettetevi nei loro panni: la pensereste diversamente?
Le propagande contrapposte poi parlano dei rivoltosi di piazza Maidan come agenti dell’Occidente e dei russi di Crimea e delle zone di confine fra Ucraina e Russia come gente sobillata dagli uomini di Putin. Se non che, anche quando vengono messe in atto dai governi manovre più o meno subdole o coperte, nulla possono, a nulla approdano, se non incontrano l’appoggio delle popolazioni locali. Chi guarda troppo dall’alto non riesce quasi mai a comprendere che laggiù, in basso, non ci sono formiche ma persone, e che ciò che pensano e vogliono quelle persone è altrettanto importante di ciò che fanno i governi. Anzi, i governi, spesso, sono costretti a muoversi al rimorchio di quelle persone. Se, ad esempio, nasceranno nuovi focolai di tensione in un qualunque Paese ove sia presente una minoranza russa, sarà difficile stabilire se si tratterà di disordini voluti da Putin come pretesto per intervenire o se, nati spontaneamente, lo spingeranno all’intervento.
Evitiamo di raccontarci che è tornata la Guerra fredda (forse ci ritroveremo con una pace fredda). Non c’è più l’Urss né c’è il confronto globale fra comunismo e capitalismo. Le sanzioni occidentali, gli osservatori dell’Osce a Kiev, i movimenti di truppe, gli incrementi, a cui certamente assisteremo, dei bilanci militari dei Paesi dell’Est Europa che più temono la Russia, le tensioni nei vari luoghi della diaspora russa, annunciano che si torna, in forme nuove, a quella politica di potenza che, salvo la breve parentesi degli ultimi due decenni, ha sempre accompagnato la storia europea. Poi ci sono gli affari, la dipendenza energetica, il commercio, gli investimenti esteri. Hanno sempre convissuto con la politica di potenza e continueranno a farlo. Ma non smettiamo mai di pensare a cosa passa per la testa delle persone comuni. Perché è lì, in definitiva, che si decide se sia possibile o no tenere sotto controllo le più gravi crisi internazionali . 


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