sabato 1 marzo 2014

UN PAESE DI TROPPE (E SPESSO FINTE) VITTIME. UN IMPERDIBILE GUIDO VITIELLO


Bella e raffinata l'ironia di Guido Vitiello sul culto della vittima delle nostre latitudini. Anche un po' una denuncia, piuttosto coraggiosa. 
Il "nostro" si sposta dal lamento delle vittime che almeno però in qualche modo quel ruolo lo vestono con pertinenza, a coloro che detengono posizioni di potere eppure si lagnano.
Cita i partiti, i sindacati, Confindustria, i berlusconiani e i grillini.
La chiosa, imperdibile, è dedicata ai magistrati.
Da non perdere

La vittima che azzanna

Un nuovo libro sull’eterna favola del lupo e dell’agnello, e noi qui pensiamo alla magistratura

Non so quali siano gli effetti tossicologici del Popper, dottore, ma c’è una pagina della “Società aperta e i suoi nemici” che mi ronza nella testa da vent’anni e non vuole uscirne, devo preoccuparmi? E’ quella in cui il filosofo mette allo specchio i partiti che parlano da lupi e agiscono da agnelli e i partiti che parlano da agnelli e agiscono da lupi: un piccolo chiasmo che vale un trattato di scienza politica. E va bene che Daniele Giglioli assume droghe ben più pesanti delle mie (un cocktail micidiale di Zizek, Agamben, Badiou, Rancière, Butler, roba che stenderebbe un cavallo) ma il suo “Critica della vittima”, appena pubblicato da Nottetempo, è sempre lì che torna, alla favoletta di Fedro e alle sue inesauribili implicazioni politiche. Superior stabat lupus, ma per divorare impunemente l’agnello non devi ululare, devi belare più forte di lui, vantando nei suoi confronti un credito morale antico, acceso da non importa quale offesa. Travestirsi da agnellino o al limite (variante burlesque) da nonna di Cappuccetto rosso è il sogno di qualsiasi lupo; perché agli occhi del mondo la vittima è per definizione irresponsabile, non ha di che discolparsi e giustificarsi, la sua identità si riassume in una proprietà passiva – l’aver subìto un’offesa – che ingiunge la riparazione, il risarcimento, o a esser maliziosi il pagamento di un riscatto morale.
Il tema è stato assai dibattuto nell’America degli ultimi vent’anni, intrecciandosi alla questione del “politicamente corretto” e delle minoranze etniche, religiose o sessuali (spesso oggetto di discriminazioni tutt’altro che immaginarie) che si sono affacciate sull’arena pubblica nella veste di vittime ansiose di riparazione; e molto se ne è discusso pure in Francia – da Todorov a Bruckner, da Girard a Soulez Larivière, quello del circo mediatico-giudiziario – dove Jean-Michel Chaumont ha coniato la felice formula “concorrenza delle vittime”. Il libro di Giglioli, che rende conto di questo dibattito e propone un’ambiziosa critica politica, filosofica e antropologica, è dunque il benvenuto; anche perché in Italia, tutto sommato, non si era scritto granché. Disattenzione stupefacente, a giudicare dal grado di pervasività che la retorica della vittima ha nel nostro paese. Non parlo del belato quotidiano che sale dalle interviste o dai talk-show, per il quale occorrerebbe affiancare alla “Critica della vittima” una ben più feroce “Critica della pittima”. La specialità italiana è un’altra: qui il vittimismo non è tanto affare di gruppi marginali che premono per ottenere udienza e riconoscimento, quanto lo strumento retorico di chi sulla scena pubblica è saldamente piantato, per giunta in posizioni di potere. “Ho visto un re” sarebbe un inno eccellente, perché il vittimismo è la nostra grande ideologia trasversale, a cui da sempre fa eco la satira facilotta sul “chiagne e fotte”.
Forse parlo sotto l’effetto del Popper, ma perché non divertirsi a osservare l’intero panorama politico come una selvaggia “concorrenza delle vittime”? C’è il piagnisteo berlusconiano e il piagnisteo grillino, c’è il piagnisteo dei sindaci e il piagnisteo dei partitini, c’è il piagnisteo dei sindacati e il piagnisteo degli industriali. Tutte le corporazioni piangono. E la cosa più incredibile, e più inavvertita, è che in Italia chi ha saputo meglio occupare la casella strategica della vittima non è neppure un partito, ma addirittura una funzione dello stato: quella magistratura che, senza dover cedere neppure un briciolo del proprio potere, ha saputo accreditarsi presso l’opinione pubblica come cittadella assediata a cui tolgono tutto, perfino la carta per le fotocopie. Un’allucinazione collettiva degna di “Matrix”, una visione che neppure un’overdose di Zizek tagliato con Agamben potrebbe generare.
Ma per chi come me inala solo il Popper, tutto sta a capire, in queste guerre, chi azzanna belando e chi, pur ululando, finisce sbranato. Assegnate voi le parti, ché tanto la favola non dimostra un bel niente.

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