Alessandro Perissinotto è uno scrittore e docente universitario di non so quale istituto letterario della facoltà di Torino. Su La Stampa di oggi viene ospitata una sua riflessione sul cyber bullismo per il quale unica difesa possibile immaginata è il divieto dell'anonimato in rete, da realizzare immagino con adeguate contromisure tecniche nel caso di non osservanza della regola, per esempio: anonimato = impossibilità a navigare.
A me sta bene, come si vede dalla pagina "Chi sono" presente nel blog dove si trovano i miei dati personali, ma non sono sicuro che sarà una misura popolare, specie tra i giovani.
Comunque, per quello che vale, io sono senz'altro favorevole non solo a questa misura ma anche alla fattiva sanzione di chi pensa che insultare e peggio via Rete non costituisca reato, che il Web sia una sorta di zona franca dove tutto è possibile, l'unico luogo della libertà assoluta e senza responsabilità (né coscienza).
Ciò posto, una riflessione anche sulle vittime complici dei loro carnefici. Su FB ma immagino anche su Twitter, per citare i social network più diffusi, con milioni di utenti, ci sono diversi sistemi di selezione e blocco per preservare il proprio diario-profilo da invasioni non gradite. Se uno non è pratico, come me, si fa spiegare come si fa per attivarle, che c'è sempre un amico più esperto.
Perché questi giovani non lo fanno ? Se è vero, come leggo nell'articolo, e come è verosimile e logico, il peggio si scatena sul sito ask.fm perché garantisce il completo anonimato (ecco, dichiarare illegali questi siti e se non si adeguano oscurarli. Questo sicuramente è possibile, che Erdogan è stato capace di farlo con google e twitter ! ) perché iscriversi ?
Insomma, nel confronto tra i giovani di ieri e quelli di oggi, che Perissinotto tenta, è evidente che i secondi hanno, grazie alla rete, dove si possono collegare ormai semplicemente dal proprio cellulare, molte più occasioni per trasgredire senza la possibilità di essere controllati.
Ma a 14-15 anni, quando ebbi la vespetta e potevo girare liberamente per la città, a me non veniva in mente di inoltrarmi nei quartieri che sapevo poter essere pericolosi, né frequentavo bische e ambienti a rischio. E dei miei amici, chi lo faceva, per lo più sapeva quali fossero quelle sostanzialmente tranquille, dove potevi farti una partita a biliardo senza che qualcuno ti infastidisse.
Insomma, mi sembra che allora ci fosse una consapevolezza più diffusa di come tutelarsi.
Al di là di questa sensazione del tutto personale, forse è anche il caso di farci soccorrere dalla statistica prima di allarmarci troppo, suggestionati dalla risonanza che i media danno a questi episodi che ovviamente ci colpiscono per la loro tragicità e ingiustizia. Quanti sono questi casi ? E qual è la proporzione rispetto agli utenti della rete ? Forse, se si facesse questo tipo di indagine, resteremmo dispiaciuti per la vittima ma ci accorgeremmo che non è in corso una pandemia.
Semmai a me viene un'altra considerazione, oltre a quelle che di seguito potete leggere di Pessinotto, e cioè se lo stare continuamente collegati in rete, e vedersi poco nella realtà, possa essere alienante e distorsivo.
Se al baretto, o muretto, o altro luogo di ritrovo dopo i compiti io sostituisco FB e/o Wahtsapp ci ho guadagnato od ho perso ? Se anche quando sto con gli altri, non riesco a staccarmi dal collegamento permanente con quelli che fisicamente non sono presenti ma comunque raggiungibili, faccio una cosa giusta o sbagliata ?
Vale per tutti, ma per i giovani molto di più perché per loro stare insieme, rispetto agli adulti, è ancora molto più incentrato sul FARE che non sul solo PARLARE.
O almeno, così secondo me dovrebbe essere.
Buona Lettura
Le armi spuntate contro i bulli del web
Da qualche anno abbiamo iniziato ad aggiornare un macabro archivio,
quello degli adolescenti che, in conseguenza di umiliazioni subite in
rete, hanno scelto la via del suicidio.
Abbiamo cominciato ad annotarci i nomi, i luoghi e le cause: erano quasi sempre nomi anglosassoni, di ragazzi dell’America profonda e le cause avevano spesso a che vedere con la circolazione incontrollata di foto compromettenti. Poi però l’archivio è cresciuto, i nomi e i luoghi sono diventati più familiari: Cittadella, Novara, Venaria Reale. L’epidemia di suicidi si allarga rapidamente anche dalle nostre parti e le ragioni che spingono i giovani a togliersi la vita non sono più da ricercarsi nella pubblicazione di qualche immagine osé, ma nella trista sequela di insulti e di sfottò che molti ragazzi ricevono quotidianamente attraverso i social network. A ogni nuovo caso, noi, che apparteniamo alla generazione dei padri, ci poniamo una domanda legittima: «Ma, in fondo, queste cose non accadevano anche ai nostri tempi?» In risposta, ognuno trova nella propria memoria un vasto campionario di crudeltà infantili subite (e talvolta agite), un lungo elenco di derisioni, di cattiverie, di scherzi di cattivo gusto. «Sì – ci ripetiamo – queste cose accadevano anche ai nostri tempi, eppure nessuno si suicidava».
E potremmo risolverla così, con l’orgoglio un po’ meschino d’essere d’un’altra pasta e con la preoccupazione di trovarci di fronte a una generazione fragile. Ma la soluzione sarebbe semplicistica e ingiusta: troppo facile equiparare un episodio di cyberbullismo a una scazzottata davanti alla scuola o a una mortificazione patita durante l’intervallo. Il bullismo degli Anni 70 non era roba da poco e le catene, i tirapugni e i coltelli cominciavano già a girare nelle scuole medie, eppure, bastava allontanarsi dall’edificio scolastico, bastava chiudere la porta di casa per creare una separazione netta tra noi e i nostri persecutori. Con la rete è diverso, con i social network gli insulti e le prese in giro inseguono le vittime in ogni luogo, in ogni tempo: non ci sono porte, o vacanze, o spostamenti che salvino dalle vessazioni. E, in più, i ragazzi si trovano soli di fronte a una moltitudine di torturatori; nelle baruffe d’un tempo c’era quasi sempre un amico che ti tirava fuori, oggi, pur con centinaia di amici su Facebook, nel chiuso della loro stanza, gli adolescenti non possono contare sull’aiuto di nessuno, o quasi.
Certo, gli educatori invitano al dialogo, raccomandano di seguire i figli durante le loro navigazioni in Internet, di sorvegliare l’uso del computer, ma sanno che dialogo e accompagnamento sono armi spuntate: non è più questione di impedire ai minorenni di visitare dei siti pornografici o di acquistare in rete merci proibite, si tratta di invadere il loro spazio di relazione. È come se i nostri genitori avessero preteso di rimanere al nostro fianco durante le feste del sabato pomeriggio o le serate in discoteca: ci saremmo ribellati. Ciò che possiamo fare è provare a combattere la dipendenza da social network, dimostrare che si possono trascorrere delle giornate intere senza postare nulla su Facebook o senza twittare. Ma anche questa è una battaglia che stiamo per perdere: nella mia aula universitaria non ho alcuna autorità per chiedere che i cellulari vengano spenti e la magistratura francese ha più volte ribadito che il diritto a comunicare in rete deve essere garantito anche negli edifici scolastici, anche durante le lezioni. Ed è questa dipendenza che aumenta a dismisura l’impatto del cyberbullismo rispetto alle vecchie forme di persecuzione: anche derisi o insultati, i giovani non riescono a tenersi lontani dai social network, le vittime non possono fare a meno di consegnarsi ai carnefici. La ragazzina che si è suicidata a Venaria si riteneva brutta, ma continuava a offrire foto di sé ai bulli che le scrivevano: «Sei la vergogna delle ragazze del 2000».
Ma sbaglieremmo a considerare questo come un problema esclusivamente giovanile. L’arroganza, la trivialità, l’aggressività, hanno trovato in rete un habitat perfetto. Basta osservare i commenti on-line dei lettori di qualsiasi giornale, anche del più colto, per rendersi conto che già alla seconda o terza replica cominciano a volare gli insulti. L’anonimato garantito dalla rete aiuta le persone ad esprimere il peggio di sé e non è un caso se il social network che più degli altri è stato accusato di istigazione al suicidio è ask.fm, cioè quello che ha fatto dell’anonimato la propria bandiera. Bullismo, violenza, ma anche semplici calunnie, stroncature di ristoranti e hotel pilotate dalla concorrenza: l’anonimato sta trasformando il sogno di una comunità globale, nell’incubo del tutti contro tutti. Credo che le leggi internazionali dovrebbero sottrarci la piccola libertà di nasconderci dietro a un nickname per restituirci la grande libertà di usare civilmente e ragionevolmente una delle più strabilianti invenzioni dell’umanità.
Abbiamo cominciato ad annotarci i nomi, i luoghi e le cause: erano quasi sempre nomi anglosassoni, di ragazzi dell’America profonda e le cause avevano spesso a che vedere con la circolazione incontrollata di foto compromettenti. Poi però l’archivio è cresciuto, i nomi e i luoghi sono diventati più familiari: Cittadella, Novara, Venaria Reale. L’epidemia di suicidi si allarga rapidamente anche dalle nostre parti e le ragioni che spingono i giovani a togliersi la vita non sono più da ricercarsi nella pubblicazione di qualche immagine osé, ma nella trista sequela di insulti e di sfottò che molti ragazzi ricevono quotidianamente attraverso i social network. A ogni nuovo caso, noi, che apparteniamo alla generazione dei padri, ci poniamo una domanda legittima: «Ma, in fondo, queste cose non accadevano anche ai nostri tempi?» In risposta, ognuno trova nella propria memoria un vasto campionario di crudeltà infantili subite (e talvolta agite), un lungo elenco di derisioni, di cattiverie, di scherzi di cattivo gusto. «Sì – ci ripetiamo – queste cose accadevano anche ai nostri tempi, eppure nessuno si suicidava».
E potremmo risolverla così, con l’orgoglio un po’ meschino d’essere d’un’altra pasta e con la preoccupazione di trovarci di fronte a una generazione fragile. Ma la soluzione sarebbe semplicistica e ingiusta: troppo facile equiparare un episodio di cyberbullismo a una scazzottata davanti alla scuola o a una mortificazione patita durante l’intervallo. Il bullismo degli Anni 70 non era roba da poco e le catene, i tirapugni e i coltelli cominciavano già a girare nelle scuole medie, eppure, bastava allontanarsi dall’edificio scolastico, bastava chiudere la porta di casa per creare una separazione netta tra noi e i nostri persecutori. Con la rete è diverso, con i social network gli insulti e le prese in giro inseguono le vittime in ogni luogo, in ogni tempo: non ci sono porte, o vacanze, o spostamenti che salvino dalle vessazioni. E, in più, i ragazzi si trovano soli di fronte a una moltitudine di torturatori; nelle baruffe d’un tempo c’era quasi sempre un amico che ti tirava fuori, oggi, pur con centinaia di amici su Facebook, nel chiuso della loro stanza, gli adolescenti non possono contare sull’aiuto di nessuno, o quasi.
Certo, gli educatori invitano al dialogo, raccomandano di seguire i figli durante le loro navigazioni in Internet, di sorvegliare l’uso del computer, ma sanno che dialogo e accompagnamento sono armi spuntate: non è più questione di impedire ai minorenni di visitare dei siti pornografici o di acquistare in rete merci proibite, si tratta di invadere il loro spazio di relazione. È come se i nostri genitori avessero preteso di rimanere al nostro fianco durante le feste del sabato pomeriggio o le serate in discoteca: ci saremmo ribellati. Ciò che possiamo fare è provare a combattere la dipendenza da social network, dimostrare che si possono trascorrere delle giornate intere senza postare nulla su Facebook o senza twittare. Ma anche questa è una battaglia che stiamo per perdere: nella mia aula universitaria non ho alcuna autorità per chiedere che i cellulari vengano spenti e la magistratura francese ha più volte ribadito che il diritto a comunicare in rete deve essere garantito anche negli edifici scolastici, anche durante le lezioni. Ed è questa dipendenza che aumenta a dismisura l’impatto del cyberbullismo rispetto alle vecchie forme di persecuzione: anche derisi o insultati, i giovani non riescono a tenersi lontani dai social network, le vittime non possono fare a meno di consegnarsi ai carnefici. La ragazzina che si è suicidata a Venaria si riteneva brutta, ma continuava a offrire foto di sé ai bulli che le scrivevano: «Sei la vergogna delle ragazze del 2000».
Ma sbaglieremmo a considerare questo come un problema esclusivamente giovanile. L’arroganza, la trivialità, l’aggressività, hanno trovato in rete un habitat perfetto. Basta osservare i commenti on-line dei lettori di qualsiasi giornale, anche del più colto, per rendersi conto che già alla seconda o terza replica cominciano a volare gli insulti. L’anonimato garantito dalla rete aiuta le persone ad esprimere il peggio di sé e non è un caso se il social network che più degli altri è stato accusato di istigazione al suicidio è ask.fm, cioè quello che ha fatto dell’anonimato la propria bandiera. Bullismo, violenza, ma anche semplici calunnie, stroncature di ristoranti e hotel pilotate dalla concorrenza: l’anonimato sta trasformando il sogno di una comunità globale, nell’incubo del tutti contro tutti. Credo che le leggi internazionali dovrebbero sottrarci la piccola libertà di nasconderci dietro a un nickname per restituirci la grande libertà di usare civilmente e ragionevolmente una delle più strabilianti invenzioni dell’umanità.
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