sabato 10 maggio 2014

EXPO' 2015 : NESSUNA TANGENTOPOLI. STORIE DI ORDINARIE MAZZETTE


La parola Tangentopoli risuona insistente, specie nei titoli, mentre negli articoli più o meno sono tutti d'accordo (alcuni di malavoglia magari, ma tant'è) nel dire che le differenze sono molte, troppe.
Quello rivelato ai tempi - non che fosse un gran segreto, ma si passò dalla tolleranza generale al giacobinismo assoluto - era un SISTEMA funzionale al finanziamento dei partiti. TUTTI. Il PCI ne aveva avuto meno bisogno grazie alle prebende di Mosca, ma con la crisi dell'imperialismo sovietico, iniziato prima del 1989 e del 1992, anche via delle Botteghe Oscure aderì in maniera più consistente alla spartizione. Era semplice : ogni appalto pubblico prevedeva una percentuale partitocratica, che poi veniva distribuita secondo percentuali più o meno fisse. Come ricorda Polito nell'articolo che segue, a volte il cassiere era comune, che tra soci ci si fidava.
Adesso è una cosa più standard, imprenditori disinvolti e manager pubblici bisognosi di incrementi finanziari (che il consenso politico costa, basta sentire le lamentele di Corrado Mineo, Dio lo perdoni...) , accomunati dal tratto della disonestà, si mettono d'accordo per l'assegnazione degli appalti. Difficile dire se si tratti di corruzione (il privato che offre soldi al pubblico) o collusione (il pubblico che ricatta il privato) : probabilmente è un incontro perfetto, un matrimonio d'interesse dove entrambi i coniugi sono consenzienti e felici.
I partiti quindi stavolta non c'entrano, visto che i soldi non finiscono a loro. Però gli uomini coinvolti sono figure contigue alla politica. I Manager e alti dirigenti, che se no a quei posti direttivi non ci starebbero, e i faccendieri che tali sono per le loro conoscenze coi primi. Di qui l'essere rimasti sulla "cresta dell'onda" di personaggi come Greganti (PCI) e Frigerio (DC). 
Aumentano i controlli, le norme che regolamentano gli appalti sono un labirinto che dovrebbe impedire i taroccamenti, e invece poi si scopre che così non è. 
In molti continuano a ripetere, inascoltati, che l'unica vera soluzione è allontanare la mano pubblica dal Denaro, ma finora di questa rivoluzione Renzino non parla, che già ha i suoi grossi guai a portare avanti le altre.
Un'ultima considerazione. Questa vicenda ha risvegliato il ricordo della tangentopoli che fu, nonostante le differenze dette. Bene, ne approfitto per  sottolineare, anche a beneficio di qualche amico che mi onora della sua lettura, che l'Italia pre ventennio berlusconiano non era un mondo di onesti e cultori della cosa pubblica. E la ghigliottina del pool milanese rivoluzionò il panorama politico del nostro paese, distruggendo i partiti della prima repubblica, ma non portò a nessuna catarsi etica, che le mazzette non hanno mai smesso di girare. E il partito più moralista di tutti, giustizialista per eccellenza, l'Italia dei Valori, è alla fine annegato, insieme al suo fondatore, per scandali e scandaletti da rubapolli. Ci sarebbe anche il problema di un ritorno del protagonismo manettaro, con la procura milanese peraltro divisa... Un bel caos a Milano a meno di un anno ormai dal grande evento dell'Expò 2015.
 
Di seguito, come detto, la riflessione di Antonio Polito, cui seguirà, in altro post, quella di Davide Giacalone e, se lo recupero, quello di Filippo Facci. 


La ragnatela degli affaristi
 
Puoi sciogliere il Pci, il Pds, i Ds, ma non puoi sciogliere Primo Greganti. Puoi sciogliere la Dc, ma non Gianstefano Frigerio. La lezione dell’inchiesta di Milano, anche se finisse con una raffica di assoluzioni, è che non basta abbattere i partiti o cambiargli nome per risanare la politica. Anzi: la malapolitica senza partiti può essere perfino peggio. I faccendieri, gli intrallazzatori e i tangentari esisteranno finché ce ne sarà richiesta sul mercato, cioè finché saranno necessari per fare incontrare «imprenditori a caccia di appalti e manager pubblici a caccia di carriere», come ha scritto ieri Luigi Ferrarella sul Corriere . E questo accadrà fin quando sarà la politica a distribuire appalti e carriere, gare e presidenze di enti.
Per moralismo, per non imitare gli americani, non abbiamo portato alla luce del sole il lavoro di lobbying , inevitabile quando più privati competono per ottenere commesse pubbliche. E dunque ci teniamo l’immoralità di scambi che avvengono al buio tra chi può e chi paga, intermediati da chi conosce.
Non è cambiato infatti l’essenziale. Nascosta sotto una foresta di norme astruse e inefficaci che dovrebbero garantire la trasparenza, è rimasta intatta la discrezionalità del potere politico; il prezzo con cui ci si aggiudica una gara non conta niente perché tanto poi lo si può rialzare; imprese finte e imprese vere sono messe sullo stesso piano in un’economia di relazione dove conta non quello che sai fare, ma a chi sai arrivare.
C’è una differenza con vent’anni fa, ed è che allora i grandi partiti prendevano il 5%, e oggi al circolo Tommaso Moro di Milano, secondo l’accusa, bastava lo 0,80%. Ma attenzione a credere che Greganti e Frigerio siano due vecchi giapponesi rimasti a combattere da soli nella giungla di Tangentopoli: rappresentano tuttora la commistione tra affari e politica. Il Signor G, scrive il Gip, è ancora «persona legata al mondo delle società cooperative di area Pd», e nelle intercettazioni ne spuntano molte di coop rosse per cui si prodigava. E Frigerio poteva ancora promettere incontri ad Arcore e biglietti di raccomandazione a un ministro.
Per questo sembra un po’ semplicistico liquidare la questione, come ha fatto ieri Renzi, auspicando che «la politica non metta becco». Perché se la politica non cambia il modo in cui gestisce il denaro pubblico, a metterci il becco rimarrà di nuovo e soltanto l’opera di repressione dei magistrati, e tra vent’anni saremo ancora qui.
C’è poi una seconda grande differenza con Tangentopoli: ed è che stavolta la Procura di Milano è divisa. Il coordinatore del pool per i reati contro la pubblica amministrazione, Alfredo Robledo, non ha firmato i provvedimenti. Il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, ha spiegato che il suo collaboratore «non condivideva l’impostazione dell’inchiesta». Questo vuol dire che era possibile un’altra impostazione? Che dietro lo scudo dell’obbligatorietà dell’azione penale esiste invece un margine cospicuo di discrezionalità, che si può scegliere un modo o un altro di esercitarla, e tempi diversi? E se sì, meglio affrettare gli arresti prima che sia troppo tardi per salvare l’Expo, o meglio evitare di farli in piena campagna elettorale? Questi dubbi sono oggi legittimi, e non giovano alla credibilità dell’azione dei magistrati. E anche di questo la politica non dovrebbe lavarsi le mani.

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