venerdì 9 maggio 2014

IL TRIBUNALE LO TOLSE ALLA FAMIGLIA DI STAMPO MAFIOSO. LUI OGGI RINGRAZIA LO STATO.

 
Sembra una storia finita bene, eppure c'è qualcosa che mi inquieta. Parlo della vicenda del ragazzo che a suo tempo il Tribunale di Reggio Calabria  aveva  allontanato sedicenne dalla  famiglia,  nella convinzione che lasciarlo avrebbe significato per lui quasi certamente un futuro criminale. Il padre del ragazzo, morto assassinato, era uno dei boss dell' 'ndrangheta nella Locride, il fratello condannato all'ergastolo al 41 bis e altri due pure in carcere per associazione mafiosa. Premesse in effetti cupe.
Il Tribunale stabilì quindi la sospensione della potestà genitoriale (oggi diremmo responsabilità ) e il ragazzo finì in una casa famiglia.
Oggi quel ragazzo ha 18 anni e ringrazia lo Stato, come potete leggere di seguito nell'articolo del Corriere.
Quindi lieto fine. Allora perché sono perplesso ?
Forse perché lo immagino come un precedente, che dovrebbe portare al rastrellamento di tutti i figli minori di certe realtà ? E quindi centinaia se non migliaia di bambini e ragazzi minorenni, estendendo la misura ai figli dei rom (ovviamente laddove è reiterata l'assenza dei figli dalle scuole e il loro impiego nell'accattonaggio se non peggio).  Una soluzione impraticabile, se non con l'esercito, che poi dovrebbe anche piantonare le strutture di accoglienza.  Ma allora chi decide quali sono i ragazzi da "salvare" da quelli che vengono lasciati ad un probabile futuro di eredi del crimine ?
E mi fermo qui, che proseguendo su questa via, di uno Stato che interviene per aggiustare le cattive carte assegnate dal destino, si potrebbe arrivare fino a Sparta.


Il Corriere della Sera - Digital Edition


Il ragazzo allontanato dalla famiglia mafiosa 
«Lo Stato mi ha aiutato»

 
«Credevo che allo Stato non gliene importasse niente delle persone, lo Stato era quello che ti portava via da casa». Ma «in questi mesi ho conosciuto uno Stato diverso, che non mi ha voluto cambiare a tutti i costi, che per una volta ha cercato di capire chi ero io davvero. Non rinnego la mia famiglia», ma «ho deciso che la mia vita deve essere diversa. Ora posso scegliere. Posso puntare in alto. Ci sono tanti ragazzi come me che avrebbero bisogno di uno Stato così. Non credono che esista. Io l’ho conosciuto e scrivo questa lettera perché anche gli altri lo sappiano». Firmato: Riccardo Francesco Cordì.
Il cognome è quello di una della più potenti famiglie di ’ndrangheta della Locride: cognome del padre assassinato, di un fratello ergastolano al 41 bis per omicidio, di altri due fratelli in carcere per associazione mafiosa, e di decine di parenti arrestati o indagati. Il nome è invece quello dell’allora 16enne sul quale nel 2012 il Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria, presieduto da Roberto Di Bella, aveva scommesso per azzardare la prima di una serie di sfide apparentemente folli: sperimentare, nei confronti di famiglie di ’ndrangheta, provvedimenti civili di decadenza o limitazioni della responsabilità genitoriale, con allontanamento temporaneo dei figli sino ai 18 anni, allo scopo di sottrarne lo sviluppo psicofisico ai deteriori modelli educativi mafiosi che altrimenti li consegnerebbero ad un ineluttabile destino criminal-familiare. Ora che Riccardo ha compiuto 18 anni, non solo il Tribunale certifica che è riuscita la messa alla prova, ma il giovane prende la coraggiosa decisione (da Locri, dove è tornato) di scrivere al Corriere — che un anno fa, senza farne il nome, aveva raccontato del provvedimento — per far sapere ai ragazzi come lui quali sconosciute opportunità possano avere fuori dall’orizzonte mafioso.
Non era scontato. In fondo, poco prima dell’allontanamento dalla famiglia, era stato assolto per contraddittorietà della prova dal danneggiamento di un’auto della Polfer. E invece, una volta affidato a una comunità di Messina, il giovane ha ripreso ad andare a scuola, dove ha conquistato una importante promozione, lui che veniva da un rosario di bocciature; ha fatto amicizia con un giovane psicologo (Enrico Interdonato) dell’associazione «Addiopizzo» di Messina e con l’assistente sociale Maria Baronello, e ha «scoperto» che con i coetanei si può andare a ballare in discoteca o in gita al mare; ha preso a frequentare (all’inizio in incognito visto il corto circuito del suo cognome) le riunioni e il cineforum dell’associazione antiracket, a partecipare ai lavori di pubblica utilità nei quartieri disagiati, ad ascoltare i racconti di imprenditori vittime delle cosche.
E, riflettendo su se stesso — che è già un piccolo evento per chi, come i rampolli dei boss, introietta l’obbligo di azzerare le proprie emozioni per non tradirsi e non tradire —, ha iniziato a comprendere che poteva rimpossessarsi di sé, in condizione di parità con i suoi coetanei: essere cioè apprezzato per le sue qualità personali e non più esclusivamente in funzione del malinteso «rispetto» che era abituato ad attendersi e a vedersi riconoscere dagli altri per il solo fatto di essere figlio di un boss e esponente di una «famiglia» il cui cognome intimidisce.
Lui per primo ha scoperto che non era vero che «i giudici confiscano i bambini». Al contrario, questi pioneristici provvedimenti non si propongono di sottrarre i figli alle cosche, ma anzi cercano una sorta di «alleanza» con i familiari che nell’interesse del figlio decidano di accompagnare il programma, cogliendone non lo scopo punitivo ma l’occasione (che una madre intrisa di cultura mafiosa non può da sola avere la forza di procurarsi) per evitare che il figlio finisca come il marito o i fratelli, e cioè o ucciso o al 41 bis.
Così da un lato a Riccardo, in ragione della serietà del suo impegno, è stato via via consentito di tornare periodicamente a Locri dalla madre; e dall’altro lato sua madre è andata spesso a trovarlo a Messina, ha seguito un percorso di recupero delle competenze genitoriali presso il consultorio familiare, è entrata lei stessa nei locali di «Addiopizzo». E tutto ciò con la tacita non opposizione dei tre fratelli del giovane, i quali, di fronte a «un giudice che per una volta si interessa di loro», dal carcere non hanno tarpato l’unica chance per Riccardo di avere un futuro diverso dal loro in carcere.
Dal seme già stanno nascendo frutti. Non soltanto uno specifico protocollo tra tutti i Tribunali e le Procure del distretto giudiziario di Reggio Calabria. Ma anche l’idea di studiare questo genere di provvedimenti per consentire il rapido ricongiungimento dei figli con le madri o i padri di una famiglia mafiosa che decidano di diventare testimoni o collaboratori di giustizia, al riparo dal rischio che i figli, lasciati nella famiglia di cosca, siano usati dai parenti mafiosi quale strumento di ricatto (come accaduto a Maria Concetta Cacciola, indotta al suicidio dai familiari nel 2011) o di rappresaglia (come nei confronti del pentito siciliano Santino Di Matteo, al quale Cosa nostra tenne per due anni sequestrato e poi sciolse nell’acido il figlioletto Giuseppe).
In che modo? Dando al genitore testimone o collaboratore di giustizia (trasferito in località segreta e protetta) l’affido giuridico esclusivo del figlio, con eventuale provvedimento di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale nei confronti dell’altro genitore che rifiuti invece quella scelta o abbia contiguità criminali: lo si è già fatto con successo nei casi della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce (le cui dichiarazioni molto hanno pesato per le condanne inflitte a Palmi nel processo «All Inside») e della testimone di giustizia Simona Napoli.
E per le donne di ’ndrangheta sapere che lo Stato offre una vera nuova opportunità di vita, non più da sole ma con i figli minorenni al seguito, potrebbe produrre effetti imprevedibili nel monolite di una struttura patriarcale nella quale, a suggello di patti tra le cosche, i matrimoni sono di fatto imposti a giovani donne, «imprigionate» dalla e nella «famiglia» mafiosa.
Luigi Ferrarella

1 commento:

  1. RICCARDO CATTARINI

    Come sempre hai ragione Stefano. Il dubbio che il ragazzo, che vista la scuola di vita che ha avuto sveglio è di sicuro, abbia perfettamente capito come gli convenga relazionarsi con il suo nuovo humus è forte. Condivido l'inquietudine, soprattutto su un punto: chi è che, e soprattutto come, decide che la famiglia sia "sbagliata" e decreta la presa in carico?

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