Bè, siccome domenica prossima si vota per il Parlamento Europeo, magari qualche contributo inerente a questa tornata elettorale sarà bene darlo, oltre a continuare ad "entusiasmarci" per le beghe di casa nostra. Come scritto in un altro post, le ragioni degli euroscettici, hanno il pregio di essere chiare : ci sono quelli che l'Unione proprio non la vogliono, e quelli che la vorrebbero meno invasiva, più Nazione e meno Unione. Non una rinnegazione completa, ma un ridimensionamento sì. Poi c'è un'altro gruppo ancora, che auspica una riduzione delle competenze, MA, in quelle, una vera cessione di sovranità : L'Unione si deve occupare di poche cose, ma su quelle deve "governare" e i singoli stati devono "obbedire". Se non erro nell'interpretarlo, Angelo Panebianco è di questo avviso.
Nel campo degli europeisti invece, tolti quelli che abolirebbero tout court le Nazioni affidando tutto agli "Stati Uniti d'Europa", ci sono molti in una sorta di linea grigia dove per carità, l'ideale unitario non si può mettere in discussione (c'è molta retorica su questo, fa giustamente notare Zingales nel suo libro dedicato all'argomento) però poi COME questa Europa debba alfine definirsi sono molto più confusi. Così NO, dicono, e dopo questi 5-6 anni di gestione non entusiasmante della più grande crisi economica del dopoguerra, non è che ci voglia molto per dirlo, ma COME però non si riesce a capire.
Per esempio, riporto di seguito l'intervento di Francesco Saraceno, ospitato nella pagina delle opinioni del Corriere, leggo ricercatore economico del centro di studi politici PO di Parigi, e chiedo, a quelli del PD, o di Scelta Europea, che sono diciamo nella parte degli euroconvinti, sia pure criticamente, cosa ne pensano della sua proposta : maggiore cessione di sovranità, eurobond,sussidio di disoccupazione europeo, banca centrale di ultima istanza (cose scritte anche da Tremonti, nel suo libro di due anni fa "Uscita di Sicurezza"
).
Certo, se la scelta deve essere lo status quo, con qualche blando palliativo, o il ritorno all'Europa delle Patrie, meglio restare a casa.
Buona Lettura
Cedere sovranità per essere più forti
Il federalismo via
maestra europea
di FRANCESCO SARACENO *
Caro direttore, all’avvicinarsi
delle elezioni europee il dibattito sul futuro della Ue sembra ostaggio di due
visioni contrapposte, ugualmente insoddisfacenti. A chi si compiace della
mancata implosione dell’economia europea, si contrappone chi vede come unica
soluzione il ritorno alle valute nazionali. Nessun movimento politico sembra
farsi portatore delle istanze riformiste che invece dominano il dibattito
accademico e di politica economica.
Le istituzioni europee e la maggior parte dei governi si cullano in una sorta di autocompiacimento, indotto dal fatto che nonostante la violenza della crisi la zona euro è sopravvissuta e sembra essersi lasciata alle spalle i giorni peggiori. Occorre dunque continuare con l’austerità (magari ammorbidita) e affiancarle le riforme strutturali che consentano, sul modello tedesco, di essere più competitivi e aumentare le proprie esportazioni. Il movimento degli euroscettici ha però buon gioco nel ricordare che la gestione calamitosa della crisi, e le innovazioni istituzionali adottate precipitosamente (il fiscal compact e il fondo salva Stati), hanno imposto un costo spropositato e inutile soprattutto ai Paesi periferici, non riuscendo a proporre altro che un’austerità i cui effetti sono messi in dubbio anche dal Fondo monetario internazionale.
La diagnosi degli euroscettici è corretta. E si può aggiungere che quattro anni di crisi, e di enfasi sulle sole finanze pubbliche, ci lasciano in eredità una zona euro spaccata in due, e quindi ancora più vulnerabile di fronte agli shock esterni di quanto non fosse nel 2007. La distruzione di capitale, umano e fisico, nei Paesi in crisi, avrà effetti negativi ancora per anni. Sorprendentemente, tuttavia, le sempre più inoppugnabili critiche alle politiche seguite in Europa non si traducono in una proposta politica riformista. A una settimana dalle elezioni europee, le sole voci udibili, nel dibattito pubblico, sono quelle dei propugnatori dell’uscita dall’euro. La soluzione di ritornare alle valute nazionali sembra tuttavia essere semplicistica. Nessun economista in buona fede potrebbe oggi avventurarsi nell’impossibile avventura di stimare gli effetti del processo messo in moto da un’uscita dall’euro. Le stime di costi e benefici che circolano con insistenza, sia in un campo che nell’altro, sono poco più che elucubrazioni da palla di vetro. Di quanto si svaluterebbe la nuova lira? Come reagirebbe il sistema bancario? Che cosa farebbero gli altri Paesi? E se uscissero anche loro, cosa succederebbe con le svalutazioni competitive? Che cosa succederebbe al debito di imprese e consumatori? Di quanto aumenterebbe la competitività? Tutte domande intrecciate tra loro, che disegnano scenari semplicemente impossibili da prevedere, e con tutta probabilità disordinati.
La risposta degli euroscettici a queste obiezioni è che, per quanto rischiosa, un’uscita dall’euro è sempre preferibile agli anni di quasi stagnazione che ci attendono, con tassi di crescita da prefisso telefonico, e con tassi di disoccupazione che diventano cronicamente elevati. L’Europa tedesca (espressione un po’ sinistra) è irriformabile, e il salto nel buio di un ritorno alla sovranità monetaria sarebbe comunque preferibile alla lenta agonia dello status quo.
È a questa conclusione che occorre opporsi con forza. Si fa sempre più strada, tra chi non è accecato dal totem dell’austerità, la consapevolezza che ciò che manca nell’Unione monetaria europea è una struttura di tipo federale, che aiuti ad assorbire gli shock asimmetrici che colpiscono e colpiranno i Paesi membri. Anche nei flessibili Stati Uniti i trasferimenti che avvengono tramite il bilancio federale aiutano ad assorbire una buona parte degli shock asimmetrici, e a contrastare pericolose divergenze del tipo di quelle viste in Europa negli ultimi anni.
Se, come è lampante, il progetto federale è oggi poco più di un’utopia, è comunque vero che il dibattito accademico di questi anni ci ha fornito una serie di strumenti che potrebbero servire da surrogati di una struttura propriamente federale. Gli eurobond, un sussidio di disoccupazione europeo, una banca centrale che operi da prestatore di ultima istanza, sono solo alcuni esempi di misure che con trasferimenti limitati di sovranità consentirebbero ai Paesi europei di dotarsi di meccanismi di compensazione, senza eccessivi rischi di comportamenti opportunistici.
La soluzione quindi esiste, e la conosciamo. Obiettare che «tanto i tedeschi non accetteranno mai» significa alzare bandiera bianca nel dibattito intellettuale, e soprattutto rassegnarsi alla scelta polare tra due soluzioni che in modo diverso infliggerebbero un colpo mortale al progetto europeo e al benessere dei nostri concittadini.
Certo è inquietante constatare quanto poco questi temi siano presenti nel dibattito (in particolare, il silenzio dei partiti progressisti è assordante). Ma è giusto rivendicare con forza, alla vigilia di importanti elezioni europee, il diritto di non scegliere tra uno status quo equivalente a un lento e inesorabile declino, e un ritorno che è difficile immaginare non caotico, all’Europa degli Stati nazione.
Le istituzioni europee e la maggior parte dei governi si cullano in una sorta di autocompiacimento, indotto dal fatto che nonostante la violenza della crisi la zona euro è sopravvissuta e sembra essersi lasciata alle spalle i giorni peggiori. Occorre dunque continuare con l’austerità (magari ammorbidita) e affiancarle le riforme strutturali che consentano, sul modello tedesco, di essere più competitivi e aumentare le proprie esportazioni. Il movimento degli euroscettici ha però buon gioco nel ricordare che la gestione calamitosa della crisi, e le innovazioni istituzionali adottate precipitosamente (il fiscal compact e il fondo salva Stati), hanno imposto un costo spropositato e inutile soprattutto ai Paesi periferici, non riuscendo a proporre altro che un’austerità i cui effetti sono messi in dubbio anche dal Fondo monetario internazionale.
La diagnosi degli euroscettici è corretta. E si può aggiungere che quattro anni di crisi, e di enfasi sulle sole finanze pubbliche, ci lasciano in eredità una zona euro spaccata in due, e quindi ancora più vulnerabile di fronte agli shock esterni di quanto non fosse nel 2007. La distruzione di capitale, umano e fisico, nei Paesi in crisi, avrà effetti negativi ancora per anni. Sorprendentemente, tuttavia, le sempre più inoppugnabili critiche alle politiche seguite in Europa non si traducono in una proposta politica riformista. A una settimana dalle elezioni europee, le sole voci udibili, nel dibattito pubblico, sono quelle dei propugnatori dell’uscita dall’euro. La soluzione di ritornare alle valute nazionali sembra tuttavia essere semplicistica. Nessun economista in buona fede potrebbe oggi avventurarsi nell’impossibile avventura di stimare gli effetti del processo messo in moto da un’uscita dall’euro. Le stime di costi e benefici che circolano con insistenza, sia in un campo che nell’altro, sono poco più che elucubrazioni da palla di vetro. Di quanto si svaluterebbe la nuova lira? Come reagirebbe il sistema bancario? Che cosa farebbero gli altri Paesi? E se uscissero anche loro, cosa succederebbe con le svalutazioni competitive? Che cosa succederebbe al debito di imprese e consumatori? Di quanto aumenterebbe la competitività? Tutte domande intrecciate tra loro, che disegnano scenari semplicemente impossibili da prevedere, e con tutta probabilità disordinati.
La risposta degli euroscettici a queste obiezioni è che, per quanto rischiosa, un’uscita dall’euro è sempre preferibile agli anni di quasi stagnazione che ci attendono, con tassi di crescita da prefisso telefonico, e con tassi di disoccupazione che diventano cronicamente elevati. L’Europa tedesca (espressione un po’ sinistra) è irriformabile, e il salto nel buio di un ritorno alla sovranità monetaria sarebbe comunque preferibile alla lenta agonia dello status quo.
È a questa conclusione che occorre opporsi con forza. Si fa sempre più strada, tra chi non è accecato dal totem dell’austerità, la consapevolezza che ciò che manca nell’Unione monetaria europea è una struttura di tipo federale, che aiuti ad assorbire gli shock asimmetrici che colpiscono e colpiranno i Paesi membri. Anche nei flessibili Stati Uniti i trasferimenti che avvengono tramite il bilancio federale aiutano ad assorbire una buona parte degli shock asimmetrici, e a contrastare pericolose divergenze del tipo di quelle viste in Europa negli ultimi anni.
Se, come è lampante, il progetto federale è oggi poco più di un’utopia, è comunque vero che il dibattito accademico di questi anni ci ha fornito una serie di strumenti che potrebbero servire da surrogati di una struttura propriamente federale. Gli eurobond, un sussidio di disoccupazione europeo, una banca centrale che operi da prestatore di ultima istanza, sono solo alcuni esempi di misure che con trasferimenti limitati di sovranità consentirebbero ai Paesi europei di dotarsi di meccanismi di compensazione, senza eccessivi rischi di comportamenti opportunistici.
La soluzione quindi esiste, e la conosciamo. Obiettare che «tanto i tedeschi non accetteranno mai» significa alzare bandiera bianca nel dibattito intellettuale, e soprattutto rassegnarsi alla scelta polare tra due soluzioni che in modo diverso infliggerebbero un colpo mortale al progetto europeo e al benessere dei nostri concittadini.
Certo è inquietante constatare quanto poco questi temi siano presenti nel dibattito (in particolare, il silenzio dei partiti progressisti è assordante). Ma è giusto rivendicare con forza, alla vigilia di importanti elezioni europee, il diritto di non scegliere tra uno status quo equivalente a un lento e inesorabile declino, e un ritorno che è difficile immaginare non caotico, all’Europa degli Stati nazione.
*Research Center in Economics,
Sciences-Po, Parigi
Sciences-Po, Parigi
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