Della gazzarra scoppiata all'interno del Partito Democratico con il caso Mineo e degli altri 13 senatori che si sono sospesi dal Gruppo avevamo dato notizia ieri http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/06/siamo-il-partito-democratico-mica.html ), e detto la nostra.
Oggi interviene sulla questione Pierluigi Battista, nell'editoriale del Corsera, il quale pone l'accento sull'impazienza nervosa dei renziani, che fa pensare ad una insofferenza mal trattenuta nei confronti dei dissenzienti.
Bastava leggere qualche cenno biografico di Renzino, in particolare l'approccio coi suoi assessori al Comune di Firenze, per non stupirsi della cosa. L'uomo non gradisce che gli si mettano bastoni tra le ruote e la diplomazia è materia non insegnata nelle scuole da lui frequentate.
Quindi meglio non aspettarsi aplomb anglosassone : non è nelle corde del "nostro".
Nel merito però non sono del tutto d'accordo con il già vicedirettore del Corriere . Non sono un cultore dell'articolo 67 della Costituzione, ancorché ne comprenda le ragioni. Quell'articolo, se in passato può aver avuto un senso - preservare l'autonomia del deputato eletto, che non ha per questo vincoli di mandato nei confronti dei propri elettori - , oggi, con le elezioni dei nominati dalle direzioni e segreterie di Partito, ne ha meno.
Comunque, perché un Partito viva, ma vale anche per una maggioranza governativa, non si può essere succubi di ogni mal di pancia di pattuglie di parlamentari. L'ingovernabilità vista in questi anni , nonostante le vittorie elettorali anche nette, come furono quelle del 2001 e del 2008 di Berlusconi, sono dipese proprio dall'assenza di fedeltà delle coalizioni e anche all'interno dei singoli partiti.
Invece le riforme hanno bisogno di una barra ferma. Per cui bene le discussioni e le contrapposizioni sui vari disegni di legge, ma poi ci deve essere un momento di sintesi, il voto del gruppo, e a quello, di norma, bisogna attenersi.
Certo, e l'ho scritto, le perplessità sui testi che si vuole diventino legge è GRANDE. Io, che pure sono uno che un pochino legge e cerca di tenersi informato, non mi sono fatto un'idea granché chiara su come deve essere questo Senato. Potevo capirne l'abolizione tout court, con l'adozione di una sola Assemblea legislativa, come del resto avviene in diversi paesi, come la Francia e anche in GB, dove la Camera dei Lord è ormai solo un bel soprammobile conservato per la sua antica Storia.
Ma se poi questo Senato deve rimanere con poteri anche normativi, sia pure su un numero limitato di materie, e allora, mi sanguina il cuore a dirlo, avrebbero ragione Mineo e gli altri, che dicono che deve rimanere eletto dai cittadini. Il potere legislativo, il più importante alla fine, deve derivare dal mandato popolare, che nelle democrazie è il Popolo ad essere sovrano.
Insomma, un bel pasticcio, che se da un lato capisco le ragioni di Renzi che vorrebbe un governo che governi ( e transeat sui modi toscanacci dell'uomo e dei suoi accoliti) , dall'altra capisco chi storce la bocca a riforme pasticciate, che questa, finora, sembra essere la cifra del "Fare" del giglio fatato.
Buona Lettura
Insofferenti e dissidenti
Il Pd è, con merito, il partito italiano a
più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia
compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza
autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori,
con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti
di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato
nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin
qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce
allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione
parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se
fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti
delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito
ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i
dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore
«epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari
Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di
14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i
loro colleghi messi fuori d’imperio.
È molto verosimile che i senatori del Pd
accantonati fossero mossi da una forma di conservatorismo culturale che
in questi anni ha ostacolato qualsiasi riforma impantanandola in un
vortice di veti e di inconcludenza. Ma se Renzi ha il merito di aver
impresso una brusca accelerazione alle riforme istituzionali, facendole
uscire dalla palude degli eterni rinvii, non si può neanche pensare che
su un tema così delicato e costituzionalmente rilevante qualunque
discussione sia equiparabile a un «sabotaggio», qualunque dissenso a un
«tradimento», qualunque perplessità a un «veto». Bisogna far presto, e
Renzi ha ragione a essere insofferente di freni e dilazioni che in
passato hanno fatto inabissare ogni riforma. Ma non ci si può «impiccare
a una data», l’espressione è dello stesso presidente del Consiglio, e
dunque un mese in più per fare una riforma del Senato non raffazzonata e
rabberciata non è la fine del mondo: la campagna elettorale si è
conclusa in modo trionfale, non c’è più una data tagliola oltre la quale
l’immagine riformista del governo e del Parlamento possa risultare
intaccata.
Stupisce perciò che proprio Renzi,
protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai
vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un
formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal
manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di
riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo
aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener
minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun
vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle
decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto
tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando
gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere
politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli
preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare
l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in
condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una
confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di
convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.
Nessun commento:
Posta un commento