mercoledì 11 giugno 2014

SE IL 65,8% DI PRESSIONE FISCALE VI SEMBRA POCO



Che la pressione fiscale sia in Italia a livelli insopportabili, ormai lo dicono in tanti anche a Sinistra, il che vuol dire che veramente si deve essere passato il limite. Solo che da quelle bande, per lo più, non si immagina nemmeno per un istante di diminuire la Spesa Pubblica, ridurre le competenze dello Stato, lasciando che certe competenze siano affidate ai privati, e con ciò facendo creando un minore fabbisogno di entrate tramite il fisco. No, si sogna di sistemare il tutto con la lotta all'evasione fiscale, il famoso "pagare tutti per pagare meno". Qualcuno dovrebbe spiegare come mai, in questi ultimi decenni, senza peraltro incidere più di tanto sull'evasione (un 10%, negli ultimissimi anni, a tutto voler concedere), e quindi poco recuperando da quel lato, lo Stato ha visto sempre aumentare le proprie entrate e anche il proprio fabbisogno. Insomma il gettito, che non aumenta grazie al recupero dell'evaso, ma tramite la crescita costante delle tasse, che evidentemente molti altri italiani pagano, rincorre la Spesa, che cresce a sua volta, il che rende lecito pensare che se si recuperassero più soldi dall'evasione, questi verrebbero anch'essi SPESI, non utilizzati per diminuire le tasse.   All'inizio degli anni '80 il debito pubblico era al di sotto del 60%, nel 1994 era raddoppiato e nonostante le cure "tecniche" è cresciuto ancora fino all'attuale 135%.  
Questo nonostante che le tasse, siano aumentate, dal 2005 ad oggi, del 21%, il DOPPIO del PIL nello stesso periodo (credo che se considerassimo gli ultimi 5, di anni, il rapporto peggiorerebbe ancora).
Eppure la pressione fiscale, arrivata, complessivamente parlando, alla cifrà mostruosa del 65,8%, ormai primato incontestato in Europa, non diventa MAI emergenza. 


Il Corriere della Sera - Digital Edition


Fisco a ostacoli, 629 norme in sei anni
  Le regole approvate dal 2008: 389 hanno prodotto complicazioni 
Per le imprese pressione al 65,8% 
 
ROMA — Era il 18 giugno 2008 quando Silvio Berlusconi, appena rientrato al governo, annunciava «una semplificazione storica per imprese e cittadini». Ancora tre anni e mezzo e il suo successore Mario Monti avrebbe promesso di «migliorare la qualità della vita» con le semplificazioni. Finché, pochi giorni prima di lasciare il posto a Matteo Renzi, Enrico Letta ha rivelato di avere nel cassetto «un piano specifico per la piccola impresa, centrato sui temi della semplificazione, del lavoro e della fiscalità». Sei anni di buoni propositi, infranti sul muro invece sempre più solido della burocrazia.
Perché mentre i governi di turno giuravano di voler semplificare, le leggi che uscivano dal parlamento complicavano sempre di più. L’ultimo conto l’ha fatto la Confartigianato, ed è contenuto nella relazione presentata ieri all’assemblea annuale. Nei 2.159 giorni trascorsi dal 29 aprile 2008 al 28 marzo del 2014 sono state approvate attraverso 41 diversi provvedimenti qualcosa come 629 norme fiscali: fra queste, 72 di semplificazione ma ben 389 di complicazione ulteriore. Per una regola che dovrebbe rendere le procedure più facili ne spuntano dunque 5,4 che peggiorano l’impatto burocratico. Il risultato, argomenta il rapporto, è che «quasi due norme fiscali promulgate su tre aumentano i costi burocratici per le imprese». E considerando il saldo fra il numero delle semplificazioni e quello delle complicazioni l’ufficio studi della Confartigianato arriva alla conclusione che negli ultimi sei anni il Fisco è stato complicato al ritmo di una norma alla settimana: per l’esattezza una ogni 6,8 giorni. Niente male, per un Paese che arranca con il freno tirato di un sistema burocratico ottuso e opprimente.
Questa maledizione va avanti ininterrottamente da più di trent’anni, durante i quali si sono succedute almeno quattro riforme fiscali. Quasi tutte sfociate in un aumento delle tasse. La prima è la cosiddetta Visentini ter del 1984, seguita da una crescita della pressione fiscale di 2,4 punti nei cinque anni successivi. La seconda è la Tremonti di dieci anni più tardi, che secondo la Confartigianato avrebbe fatto salire le imposte nel lustro seguente dell’1,1 per cento. Poi la riforma voluta dal ministro del centrosinistra Vincenzo Visco, l’unica grazie a cui la pressione fiscale sarebbe diminuita, anche se marginalmente: l’associazione degli artigiani ha valutato il calo nello 0,5 per cento in cinque anni. Calo prontamente seguito, nel 2003, da una nuova risalita prodotta, sostiene ancora il rapporto, dalla nuova riforma Tremonti del 2003: +1,7 per cento nel quinquennio successivo.
Perché sia sempre stato improponibile tagliare le tasse è presto detto. Con una spesa pubblica in crescita inarrestabile, una crescita economica inesistente e un’evasione fiscale ai massimi livelli europei correlata a un sommerso che risulterebbe superiore al 21 per cento, sarebbe stato necessaria una ben differente determinazione politica. Che non si è vista. Ma che anziché i tagli promessi da tutte le forze politiche, cittadini e imprese debbano pure affrontare un Fisco sempre più complicato e ostile, è davvero un’insopportabile beffa.
Né le politiche tributarie restrittive hanno contribuito ad abbattere il mostruoso debito pubblico che ci portiamo dietro, salito dal 56,6 per cento del Pil nel 1980 al 121,2 nel 1994, al 135,2 quest’anno. Il fatto è che la pressione fiscale continuerà a restare quest’anno e ancora nel 2015 ai livelli massimi del 44 per cento, già toccati nel 2012. Con la previsione di una lievissima discesa (0,3 punti) soltanto nel 2016.
Fra il 2005 e il 2014 le entrate tributarie sono aumentate nominalmente del 21,1 per cento, quasi il doppio rispetto all’andamento del Prodotto interno lordo a prezzi correnti: cresciuto invece di appena il 10,2 per cento. Nessuno in Europa ha fatto peggio di noi. L’aumento del carico fiscale in Italia, nel decennio considerato, è risultato come in Grecia pari a 3,5 punti di Pil. Il quadruplo rispetto all’incremento dello 0,9 per cento registrato nell’intera Unione Europea. E due volte e mezzo la crescita verificatasi nell’area della moneta unica (1,4 per cento). Con condizioni che, lamenta la Confartigianato, hanno penalizzato pesantemente le imprese.
Sulla base degli indicatori del Total tax rate di Doing business della Banca Mondiale, il rapporto stima che in Italia la somma delle tasse nazionali e territoriali sul risultato operativo lordo abbia raggiunto nel 2013 il 65,8 per cento. Valore che posizionerebbe il nostro Paese al quindicesimo posto su 189 nazioni, facendoci guadagnare la prima posizione assoluta in Europa davanti alla Francia (64,7 per cento), alla Svezia (58,6) e alla Germania (49,4).


Sergio Rizzo

Nessun commento:

Posta un commento