Nel fine settimana in cui Bergoglio parla con foga del problema del lavoro, dell'angoscia di chi ne è privo, anche Luca Ricolfi nel suo intervento su La Stampa (strano che lo facciano scrivere, visto che è un eretico rispetto alla linea del giornale, "panrenziana" in modo imbarazzante) si sofferma sul dramma della disoccupazione, vero problema trasversale a cui sinistra e destra non riescono a dare risposte adeguate.
La destra, spiega il bravo osservatore, perché ha sempre privilegiato il progetto (mai realizzato peraltro) di riduzione delle tasse più sul lato dell'Irpef che su quello di Irap e Ires. La ragione è elettorale, ma sul piano dell'occupazione non è la scelta giusta.
Per il PD e la sinistra il problema è ancora più intricato. Da sempre sono il partito dei lavoratori ma da molto tempo in realtà sono lo scudo di quelli garantiti (dipendenti pubblici e delle medie e grandi imprese, quelle dell'articolo 18 per intenderci) finendo per ignorare i senza lavoro. Non è cinismo, è incapacità concettuale. Per occuparsi degli outsiders, ora che non è più possibile la spesa in deficit, le risorse per cercare di stimolare la crescita vanno reperite dal taglio della spesa pubblica, improduttiva. Capirai...carne e sangue dei democrats ! Nemmeno la patrimoniale - solita Ultima Dea della sinistra - risolverebbe la cosa, che, del caso, i proventi della stessa andrebbero destinati a ridurre il debito pubblico.
Da leggere
Quei sei milioni di deboli
che i partiti non vedono
C’è maretta, nel Pd e nel Pdl, nella maggioranza e
nell’opposizione, nei partiti grandi e nei partiti piccoli. Le acque
sono agitate perché le riforme sulle regole del gioco, prima fra tutte
la legge elettorale, non possono essere rimandate per l’ennesima volta e
un po’ tutti ne approfittano per alzare il prezzo del proprio consenso.
Ma il vento che agita il Pd è solo una leggera brezza a confronto del
turbine che sconquassa il Pdl. Nel Pdl, infatti, le normali divergenze
di opinione sui contenuti delle riforme si intrecciano inestricabilmente
con il dibattito sotterraneo sul dopo Berlusconi.
Questa seconda domanda è la domanda cruciale. Se qualcosa hanno insegnato le elezioni europee è che, per adesso, esiste una sola forza di governo, il Pd. Il punto è dunque se, anche alle prossime elezioni politiche, il centro-destra non si presenterà in campo, come di fatto è successo alle elezioni Europee, oppure sarà in grado di dare agli elettori una nuova offerta politica.
Il compito di costruire un’offerta alternativa a quella del partito di Renzi è reso difficile dalle divisioni, personali prima ancora che politiche, fra i reduci del ventennio berlusconiano. Ma la difficoltà fondamentale, a mio parere, è di ordine politico-culturale. Oggi il centro-destra non sa né in nome di quale idea dell’Italia rifondarsi, né quale sia il blocco sociale che intende rappresentare. Una difficoltà che è accentuata dal fatto che una parte dello spazio politico tradizionale del centro-destra la sta occupando Renzi con le sue idee più «di destra»: decreto Poletti sul mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica, conflitti con i sindacati e con la magistratura.
Ecco perché non è assurdo domandarsi: c’è ancora spazio per una forza di governo alternativa alla sinistra?
La mia impressione è che, nonostante l’espansionismo renziano, di spazio ve ne sia in abbondanza, anche se non è detto che tale spazio sia adatto ad essere occupato da una forza di centro-destra.
La ragione fondamentale per cui di spazio, almeno per ora, ve n’è in abbondanza, è che la politica di Renzi non sta affatto affrontando il problema fondamentale dell’Italia, e nell’unico caso in cui ha prodotto un risultato importante e tangibile (gli 80 euro in busta paga), lo ha affrontato dal lato sbagliato.
Qual è il problema fondamentale dell’Italia?
Il problema fondamentale è che ci mancano almeno 6 milioni di posti di lavoro. Se vogliamo che il nostro tasso di occupazione sia comparabile a quello medio degli altri Paesi avanzati dobbiamo, come minimo, creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro. Il che significa, in concreto, permettere un ingresso massiccio di giovani e soprattutto di donne adulte nel mercato del lavoro. Può sembrare banale, ma è questo il nucleo del problema italiano. Perché intorno al tasso di occupazione ruota tutto: un tasso di occupazione patologicamente basso come il nostro accentua le diseguaglianze, deprime il reddito medio, ci rende schiavi del debito pubblico. Non solo: lasciare insoluto questo problema crea una frattura sociale inedita e gravissima, quella fra chi sta dentro il mercato del lavoro, i cosiddetti insider, e chi ne sta fuori, i cosiddetti outsider. Frattura che si va ad aggiungere e intrecciare alla frattura già abbastanza grave fra i garantiti (lavoratori pubblici e dipendenti delle imprese medie e grandi) e i non garantiti (lavoratori autonomi e dipendenti delle piccole imprese).
Rispetto all’enormità di questo problema, la politica italiana, tutta la politica italiana, appare muta e disarmata. Nessuno gli conferisce la priorità che meriterebbe. Nessuno, soprattutto, ha il coraggio di dire che creare alcuni milioni di posti di lavoro richiede scelte aperte e radicali.
Perché questo silenzio?
Nel caso della sinistra è abbastanza chiaro. Il problema del Pd renziano era ed è riportare all’ovile i propri elettori, che provengono innanzitutto dal mondo dei garantiti. Di qui l’operazione 80 euro in busta paga, che ha beneficiato 10 milioni di lavoratori dipendenti ma ha lasciato fuori gli incapienti (chi ha un salario inferiore a 8.000 euro l’anno), i non garantiti e gli outsider, ossia soprattutto giovani e donne inoccupate.
In questo senso quella di Renzi, checché ne dicano i suoi detrattori, è stata una politica di sinistra classica, da manuale: redistribuire risorse a favore della propria base sociale.
Ma nel caso della destra?
Perché la destra stenta ad occupare gli spazi lasciati aperti dal Pd di Renzi? Perché il dramma di quei 6 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello non è prioritario neppure a destra?
Difficile dirlo. Una ragione, probabilmente, è che la destra italiana ha sempre visto la riduzione delle tasse più come un mezzo per sostenere il reddito delle famiglie che come un mezzo per stimolare crescita e creare posti di lavoro. Non a caso nel «Contratto con gli italiani» Berlusconi prometteva la riduzione delle aliquote Irpef, una misura che porta voti, ma non diceva una parola sulla riduzione di Ires e Irap, una misura ben più capace di creare posti di lavoro.
C’è forse una ragione più profonda, tuttavia, per cui gli esclusi dal mercato del lavoro interessano così poco il ceto politico. Ed è che creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro è un’impresa politicamente contraddittoria. La piena occupazione, infatti, è un obiettivo di sinistra, e lo è più che mai al giorno d’oggi, in un’epoca i cui i veri deboli non sono i lavoratori dipendenti, occupati e garantiti, ma sono i giovani e le donne escluse dal mercato del lavoro. Quell’obiettivo di sinistra, tuttavia, oggi che non possiamo più spendere in deficit può essere raggiunto solo con mezzi considerati di destra: il taglio della spesa pubblica, la liberalizzazione del mercato del lavoro e la riduzione delle tasse sui produttori, a partire dall’imposta societaria.
Questa seconda domanda è la domanda cruciale. Se qualcosa hanno insegnato le elezioni europee è che, per adesso, esiste una sola forza di governo, il Pd. Il punto è dunque se, anche alle prossime elezioni politiche, il centro-destra non si presenterà in campo, come di fatto è successo alle elezioni Europee, oppure sarà in grado di dare agli elettori una nuova offerta politica.
Il compito di costruire un’offerta alternativa a quella del partito di Renzi è reso difficile dalle divisioni, personali prima ancora che politiche, fra i reduci del ventennio berlusconiano. Ma la difficoltà fondamentale, a mio parere, è di ordine politico-culturale. Oggi il centro-destra non sa né in nome di quale idea dell’Italia rifondarsi, né quale sia il blocco sociale che intende rappresentare. Una difficoltà che è accentuata dal fatto che una parte dello spazio politico tradizionale del centro-destra la sta occupando Renzi con le sue idee più «di destra»: decreto Poletti sul mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica, conflitti con i sindacati e con la magistratura.
Ecco perché non è assurdo domandarsi: c’è ancora spazio per una forza di governo alternativa alla sinistra?
La mia impressione è che, nonostante l’espansionismo renziano, di spazio ve ne sia in abbondanza, anche se non è detto che tale spazio sia adatto ad essere occupato da una forza di centro-destra.
La ragione fondamentale per cui di spazio, almeno per ora, ve n’è in abbondanza, è che la politica di Renzi non sta affatto affrontando il problema fondamentale dell’Italia, e nell’unico caso in cui ha prodotto un risultato importante e tangibile (gli 80 euro in busta paga), lo ha affrontato dal lato sbagliato.
Qual è il problema fondamentale dell’Italia?
Il problema fondamentale è che ci mancano almeno 6 milioni di posti di lavoro. Se vogliamo che il nostro tasso di occupazione sia comparabile a quello medio degli altri Paesi avanzati dobbiamo, come minimo, creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro. Il che significa, in concreto, permettere un ingresso massiccio di giovani e soprattutto di donne adulte nel mercato del lavoro. Può sembrare banale, ma è questo il nucleo del problema italiano. Perché intorno al tasso di occupazione ruota tutto: un tasso di occupazione patologicamente basso come il nostro accentua le diseguaglianze, deprime il reddito medio, ci rende schiavi del debito pubblico. Non solo: lasciare insoluto questo problema crea una frattura sociale inedita e gravissima, quella fra chi sta dentro il mercato del lavoro, i cosiddetti insider, e chi ne sta fuori, i cosiddetti outsider. Frattura che si va ad aggiungere e intrecciare alla frattura già abbastanza grave fra i garantiti (lavoratori pubblici e dipendenti delle imprese medie e grandi) e i non garantiti (lavoratori autonomi e dipendenti delle piccole imprese).
Rispetto all’enormità di questo problema, la politica italiana, tutta la politica italiana, appare muta e disarmata. Nessuno gli conferisce la priorità che meriterebbe. Nessuno, soprattutto, ha il coraggio di dire che creare alcuni milioni di posti di lavoro richiede scelte aperte e radicali.
Perché questo silenzio?
Nel caso della sinistra è abbastanza chiaro. Il problema del Pd renziano era ed è riportare all’ovile i propri elettori, che provengono innanzitutto dal mondo dei garantiti. Di qui l’operazione 80 euro in busta paga, che ha beneficiato 10 milioni di lavoratori dipendenti ma ha lasciato fuori gli incapienti (chi ha un salario inferiore a 8.000 euro l’anno), i non garantiti e gli outsider, ossia soprattutto giovani e donne inoccupate.
In questo senso quella di Renzi, checché ne dicano i suoi detrattori, è stata una politica di sinistra classica, da manuale: redistribuire risorse a favore della propria base sociale.
Ma nel caso della destra?
Perché la destra stenta ad occupare gli spazi lasciati aperti dal Pd di Renzi? Perché il dramma di quei 6 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello non è prioritario neppure a destra?
Difficile dirlo. Una ragione, probabilmente, è che la destra italiana ha sempre visto la riduzione delle tasse più come un mezzo per sostenere il reddito delle famiglie che come un mezzo per stimolare crescita e creare posti di lavoro. Non a caso nel «Contratto con gli italiani» Berlusconi prometteva la riduzione delle aliquote Irpef, una misura che porta voti, ma non diceva una parola sulla riduzione di Ires e Irap, una misura ben più capace di creare posti di lavoro.
C’è forse una ragione più profonda, tuttavia, per cui gli esclusi dal mercato del lavoro interessano così poco il ceto politico. Ed è che creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro è un’impresa politicamente contraddittoria. La piena occupazione, infatti, è un obiettivo di sinistra, e lo è più che mai al giorno d’oggi, in un’epoca i cui i veri deboli non sono i lavoratori dipendenti, occupati e garantiti, ma sono i giovani e le donne escluse dal mercato del lavoro. Quell’obiettivo di sinistra, tuttavia, oggi che non possiamo più spendere in deficit può essere raggiunto solo con mezzi considerati di destra: il taglio della spesa pubblica, la liberalizzazione del mercato del lavoro e la riduzione delle tasse sui produttori, a partire dall’imposta societaria.
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