L' idea, provocatoria forse ma suggestiva, venne a Luca Ricolfi : affidare la lotta all'evasione fiscale alla "destra", con la promessa che tutto quanto recuperato verrebbe destinato all'abbassamento delle tasse , e assegnare quella agli sprechi, inefficienze e corruzione alla sinistra, avvertendo quest'ultima che SOLO il ricavato da questa battaglia verrebbe destinato a migliorare il welfare (asili nido, borse di studio....). Trattandosi di un montepremi di circa 120 miliardi nel primo caso, e di 70 nel secondo (non so come lo abbiano calcolato, ma sono le cifre che sempre ballano quando si parla di queste due voci), in fondo basterebbe anche un risultato del 25/30% per rastrellare comunque un bel gruzzolo ( una trentina di miliardi nel primo caso, più di 15 nel secondo).
Una genialata, che nessuno ha raccolto. Così continuiamo a dover sentire in tv le menate di un Travaglio che ripete il mantra tipico di certa parte ( niente tagli, le risorse vanno recuperate con lo stato di polizia fiscale e con la lotta alla corruzione), come se non si assistesse da decenni a due fattori, sempre uguali 1) MAI quanto recuperato dalla lotta all'evasione, e negli ultimi 3 anni parliamo di più di 30 miliardi (Befera dixit) è andato minimamente ad intaccare la pressione fiscale 2) al contrario, quest'ultima è sempre aumentata, senza che i servizi migliorassero di una virgola, occorrendo invece sempre più risorse per tenere a galla il baraccone così com'è.
Il professor Giavazzi, nella stessa trasmissione in cui sproloquiava Travaglio, ricordava quanto a conoscenza di tutti, e cioè che il prelievo fiscale italiano non è solo tra i più opprimenti al mondo, ma non c'è nessuna corrispondenza tra questo e la qualità dei servizi. Ormai solo Svezia e Danimarca hanno tasse superiori (non di molto) all'Italia, ma qualcuno potrebbe mai paragonare il welfare dei due paesi scandinavi col nostro ? In realtà, sappiamo bene che le nostre tasse, in parte significativa, sono destinate a foraggiare uno stato ineficcacemente assistenziale, più che a fornire scuole, asili, strade ecc.
Ultimamente, per cercare di diminuire la spesa pubblica, particolarmente lievitata grazie alla furbata di Prodi e della sinistra nel 2001 di riformare il titolo V della Costituzione e mettere in mano alle regioni la spesa della sanità (insieme ad altre cose), hanno provato ad affidare la cosa ai "tecnici". Prodi mise al ministero dell'economia del 2006 PAdoa Schioppa, Monti Piero Giarda e poi Bondi, Letta Cottarelli.
Non si sono visti risultati, non so se per incapactà dei commissari della Spending Review o per quella dei governanti. Sospetto più la seconda cosa.
Con Renzi il problema si accentua, che l'uomo mal sopporta la gente indipendente. Basta vedere i criteri con i quali sceglie la sua squadra, dove la mediocrità regna sovrana, e se ci sono figure di maggior pregio, sono quelle che gli ha imposto il Quirinale (Padoan, ma anche. meno, Orlando).
Cottarelli, come detto, ce l'ha trovato, e tra i due non è mai stata primavera. Adesso il Commissario, sfrugugliato da un editoriale proprio di Giavazzi, ha detto esplicitamente che : A) lui il lavoro che doveva fare l'ha fatto. E' il governo che non lo usa B) i risparmi di spesa non dovrebbero essere destinati ad ALTRA spesa, come accaduto con gli 80 euro elargiti da Renzi per vincere le europee.
La risposta di Renzi non si è fatta attendere : di Cottarelli si può fare a meno, la spending review si farà lo stesso. Renzi dice così di tutti, e la sensazione che l'uomo ami gli yesmen, o al massimo può tollerare uno che pensi con la sua testa, a patto che il pensiero sia identico al suo, è diventata certezza.
Siccome di lui penso che sia un abilissimo politico, ma non certo un genio di governo, la cosa mi preoccupa alquanto.
In realtà, come fa intendere anche Sergio Rizzo nel suo commento odierno, il pensiero che si fa strada è che Renzino abbia in mente "altro" dai tagli alla spesa. La parola patrimoniale non l'ha ancora pronunciata, ma il jolly ( ????) potrebbe essere quello.
Del resto, quando si parla di deficit spending, non è che certa democrazia cristiana dovesse prendere lezioni dalla sinistra. Semmai la differenza era sulle tasse, che i vecchi democristiani cercavano di mantenere non alte e soprattutto tolleravano una vasta evasione. Ma sull'arte di indebitarsi per spendere e non tagliare, il compromesso storico ha sempre funzionato benissimo.
Le ragioni (rivelate)
di un licenziamento
di SERGIO RIZZO
Carlo Cottarelli possiede tre caratteristiche apprezzabili in
qualunque Paese impegnato a tirarsi fuori dai guai di una spesa pubblica
non soltanto abnorme ma anche per molti aspetti insensata.
SEGUE DALLA PRIMA Ha autorevolezza, che gli deriva dall’essere
stato uno dei massimi dirigenti del Fondo monetario internazionale. Ha
esperienza, grazie a più di un quarto di secolo trascorso a fare i conti
con i conti. Ha soprattutto indipendenza: di tornare da Washington per
dare una mano al Paese non gliel’ha ordinato il dottore e non risulta
che sia legato a un partito, un singolo politico, una cordata o una
lobby. Per giunta, è anche pensionato con un assegno più che dignitoso.
E non vorremmo che fosse proprio questa sua terza caratteristica la causa dell’isolamento da lui sperimentato negli ultimi mesi. Progressivo e inesorabile al punto da fargli maturare la decisione estrema, quella di lasciare l’incarico.
È possibile che fra il commissario della spending review, nominato da Enrico Letta, e il premier Matteo Renzi non sia mai scoppiata la scintilla. Forse i due si stanno semplicemente antipatici. Non stupirebbe. Nelle vicende degli uomini la componente, appunto, umana, è sempre fondamentale. Ma guai se quello che è successo fosse il segnale che in un compito delicato quale quello affidato a Cottarelli l’indipendenza rappresenta un handicap anziché una qualità. A un medico che deve fare una diagnosi accurata per una persona che presenta sintomi gravi non si chiede (fortunatamente) per chi vota, se è seguace di una particolare fede religiosa o preferisce il cibo vegetariano. Da lui tutto ci si aspetta, tranne che si mostri pietoso: deve soltanto scoprire la malattia e indicare il modo migliore per curarla. Ecco, il commissario alla spending review non è altro che questo: lo specialista incaricato di individuare gli sprechi, le inefficienze e anche le iniquità della spesa pubblica. Come un medico bravo e responsabile, senza farsi impietosire.
E lo è tanto più in una situazione come quella italiana, dove le assurdità di una spesa cresciuta a ritmi frenetici a partire dal 2001, in concomitanza con l’approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione che ha fatto esplodere le uscite regionali senza frenare quelle dello Stato centrale, rimanda a precise responsabilità della politica e dei partiti. Che dunque non sarebbero assolutamente credibili nell’indicare come, dove e quando tagliare.
L’indipendenza è quindi un elemento fondamentale, se dalla spending review ci aspettiamo risultati concreti e non soltanto pirotecnici. Perché mette al riparo da condizionamenti esterni che obbediscono a logiche spesso refrattarie a misure tanto dolorose quanto necessarie. Non è un caso che il primo ad avviare nel nostro Paese la revisione della spesa sia stato, da ministro dell’Economia, l’ex direttore generale della Banca d’Italia Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale, pur essendo una figura di primo piano nel secondo breve governo di Romano Prodi, non ha mai voluto rinunciare alla propria indipendenza: rifiutando per esempio la candidatura e un seggio sicuro alle elezioni politiche del 2008. La stessa scelta che aveva fatto dodici anni prima, guarda caso, l’ex governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi.
Allo stesso modo non è un caso che il precedessore di Letta a Palazzo Chigi, l’ex rettore dell’Università Bocconi Mario Monti, avesse scelto per il ruolo successivamente ricoperto da Cottarelli un personaggio del calibro di Piero Giarda. Del quale certo non si può dire che fosse legato a qualche carro o carretto.
Al di là dell’esito della vicenda Cottarelli non è una questione che Renzi possa prendere alla leggera. Magari affidandosi a surrogati del commissario più fedeli e sensibili alle esigenze politiche. Per l’anno prossimo si prevede che la revisione della spesa contribuisca alle coperture con la cifra monstre di 17 miliardi di euro. D’obbligo ricordare che al 2015 mancano appena cinque mesi. E per come si sono messe le cose questa faccenda, già non facile, si presenta seria. A meno che non ci sia un altro disegno, nel quale la spending review non ha più un posto, oppure è una cosa diversa. Ma in questo caso sarebbe doveroso saperlo. In fretta.
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