Abbiamo riportato ieri l'articolo di Massimo Gaggi, inviato del Corriere, sulla situazione irachena e i dubbi amletici non solo di Obama ma dell' America tutta, divisa, come il comandante in capo, sul "che fare" .
Gli fa eco l'editoriale di Roberto Toscano, esperto di cose estere, specie del mondo orientale e medio, che scrive su La Stampa.
Io comprendo perfettamente le istanze isolazioniste di chi è stanco di vedere morire i propri soldati, spendere miliardi di dollari senza mai avere risultati soddisfacenti.
Il mondo sta impazzendo, e gli americani - né gli altri - sembrano avere la capacità di trovare equilibri accettabili. Nel nord dell'Iraq si è costituito lo Stato Islamico di ISIS, fondamentalista e violento, che ricorda agli smemorati cosa riaccadrà tra poco in Afghanistan appena le truppe occidentali avranno completato il loro ritiro, lasciando la popolazione in mano agli estremisti talebani.
In Siria, rispetto a questi scenari, si è capito che Sadat resta il male minore, come lo era Gheddafi in Libia e forse - mai avrei pensato di ipotizzarlo ! - Sadat in Iraq. Tutti dittatori certo, colpevoli della morte di migliaia di loro cittadini, ma meno peggio dell'alternativa che stiamo vedendo.
Gli occidentali, come la brava Oriana Fallaci prediceva, sono impotenti di fronte al fondamentalismo islamico, nelle sue vesti più belluine. Solo dittatori non timorosi di usare la stessa crudeltà possono opporsi, non certo le democrazie.
I giornali e le tv ci riempiono di immagini di popolazioni terrorizzate in fuga, narrano di massacri etnici e di donne schiavizzate, destinate ad essere oggetti sessuali dei soldati di Allah...
Ci sdegniamo, pensiamo che sarebbe giusto difendere i deboli, ma poi non vogliamo pagare il conto di questa difesa.
Allora meno ipocrita diventa l'esortazione di quei commentatori che , negli USA, erplicitamente perorano la causa dell'abbandono del medioriente e "senza voltarsi indietro"
Le conseguenze per l’America del nuovo intervento militare
Per due volte, giovedì sera e nella giornata di ieri, il
presidente Obama si è rivolto alla nazione americana prima per
annunciare la decisione di autorizzare l’impiego in Iraq dell’aviazione
americana, e poi per chiarire finalità e limiti dell’intervento.
Il momento è per Obama particolarmente difficile, ed è risultato evidente il suo sforzo di calibrare attentamente ogni parola, consapevole com’è di quanto sia problematica questa decisione di tornare a coinvolgersi militarmente nella sempre più inquietante vicenda irachena. Non è certo facile, infatti, spiegare agli americani che non si tratta di un «ritorno in Iraq» dopo che il Presidente aveva fatto della chiusura della disgraziata avventura militare di George W. Bush un elemento essenziale della sua prima campagna elettorale e poi della sua presidenza. E soprattutto non è facile affrontare politicamente una contraddizione di fondo che, anche non volendo considerare l’ostilità sistematica e spesso pretestuosa dell’opposizione repubblicana, caratterizza il sentire maggioritario dell’opinione pubblica americana, riluttante ad approvare nuove spese militari e nuove perdite di «American boys», ma anche critica di un Presidente visto come incapace di mantenere la centralità degli Stati Uniti sulla scena internazionale.
Obama si dibatte non da oggi in questa contraddizione, ma è l’Iraq, prima origine dell’attuale crisi regionale, che lo obbliga comunque ad agire, a «fare qualcosa», come gli viene richiesto da più parti.
Ma fare qualcosa, a questo punto della drammatica vicenda irachena, non può consistere – come sarebbe nelle sue preferenze - in iniziative in campo diplomatico o economico, e quindi Obama, che pochi giorni fa, nel suo discorso di West Point, aveva detto che «non tutti i problemi si possono risolvere con un martello» (l’impiego della forza militare) è oggi costretto a sua volta a brandirlo. Lo fa definendo in modo restrittivo la missione affidata alle forze armate, ma non c’è da sorprendersi se i suoi critici fanno notare che gli interventi militari cominciano sempre con un mandato ristretto, ma spesso finiscono per scivolare in un impegno più ampio, con l’impiego di forze di terra (boots on the ground), che in questo caso sono già presenti sul territorio iracheno, e che potrebbero essere coinvolte nell’offensiva dei jihadisti innescando inevitabilmente un’escalation.
Ma dalle stesse parole del Presidente – quando ha detto che stabilizzare la situazione in Iraq «non sarà questione di settimane» - emerge in modo inequivocabile il fatto che, anche se l’intervento viene giustificato da un’emergenza, per prevenire il precipitare degli eventi verso uno sbocco catastrofico, non si può certo pensare che le cose si concludano rapidamente.
In altri termini, sembra difficile negare che gli Stati Uniti siano «tornati in Iraq».
Obama si è certamente deciso ad intervenire dopo che si è rivelato illusorio sperare che per fermare l’offensiva dello Stato Islamico potessero bastare – a compensare la disastrosa inconsistenza dell’esercito iracheno - da un lato i combattenti curdi, i peshmerga, e dall’altro i volontari sciiti. Invece i peshmerga, pur essendo una forza combattente credibile e motivata, non sembrano in grado di arrestare l’avanzata jihadista, mentre i volontari sciiti non hanno la necessaria professionalità per far fronte a combattenti che ormai è assurdo definire «terroristi» quando sono in realtà una vera e propria forza armata. Ed è anche interessante, per capire a pieno la natura dell’impegno americano, sottolineare che il Presidente ha spostato il discorso dal piano militare a quello politico, affermando che dietro la debolezza militare dell’esercito iracheno vi è una debolezza politica che andrà superata con una svolta del governo verso maggiore coesione e credibilità.
Ma perché Obama si decide ora ad autorizzare un intervento militare, mentre ha resistito, nonostante le pesanti critiche che gli sono state rivolte, alle pressioni a favore di un intervento militare nel conflitto siriano?
L’America ha preso posizioni non ambigue nei confronti della spietata repressione prima dei dissidenti e poi dei ribelli, ma non era certo il regime siriano ad essere considerato una fonte di preoccupazione, tanto è vero che Assad, prima della crisi iniziata nel 2011, era considerato un elemento di stabilità regionale, in primo luogo per la garanzia che dava ad Israele la lunga quiete sulla frontiera del Golan.
Se mai è la prospettiva di una vittoria dei ribelli – nelle cui file prevalgono i jihadisti, mentre si fa molta fatica a credere seriamente all’esistenza di una credibile «opposizione moderata» – ad aprire scenari inquietanti per tutta la regione. L’Isis, oggi Stato Islamico, costituisce invece una sfida palese, anzi clamorosa nella sua combinazione di islamismo retrogrado e feroce, capacità di costruire alleanze (in particolare con i residui del baathismo) ed efficienza militare.
E anche se la dimensione umanitaria forse non è più così sentita in un’America stanca dei costi umani e finanziari sostenuti a fronte di evidenti sconfitte, dall’Afghanistan alla Libia, quello che sta avvenendo in Iraq è così disumano da giustificare probabilmente, agli occhi dell’opinione pubblica, un’azione americana.
Nel Nord dell’Iraq, infatti, si sta sviluppando un dramma umano ancora più estremo, nella sostanza, di quello che caratterizza uno scontro fra combattenti, con le atroci conseguenze di perdite più o meno collaterali (in realtà spesso mirate) di civili. Nei confronti degli Yazidi, un’antica setta religiosa, i jihadisti, che li considerano «adoratori di Satana», stanno infatti applicando un vero e proprio, ed esplicito, programma di genocidio – termine spesso abusato ma in questo caso effettivamente applicabile - con uccisione degli uomini e riduzione in schiavitù delle donne. Per i cristiani, nello stesso tempo, è in corso una spietata campagna di pulizia etnica, che sta rapidamente portando alla scomparsa di antiche comunità che fino ad oggi avevano mantenuto la propria fede e la propria coesione attraverso le complesse vicende storiche della regione.
In altri termini, non vi è niente di falso o di strumentale nel discorso di Obama: vera la minaccia costituita dallo Stato Islamico, autentica la motivazione umanitaria.
Eppure è inevitabile chiedersi, alla luce delle disastrose esperienze di questi ultimi anni, dove possa portare il piano inclinato di un intervento militare «limitato».
Forse verso altre sconfitte, verso un’ulteriore perdita di credibilità di un’America di cui spesso critichiamo la pretesa di eccezionalità e i troppi «due pesi/due misure», ma la cui eclissi ci preoccupa, dato che non si vede chi e come possa svolgere al suo posto una funzione di leadership in un sistema internazionale sempre più in decomposizione.
Ed inoltre, forse quest’ultima sfida irachena, qualora dovesse concludersi con un’ennesima sconfitta, potrebbe finire per rafforzare, negli Stati Uniti, tendenze all’isolazionismo, o quanto meno al ripiegamento dal Medio Oriente. Stephen M. Walt, docente di Relazioni Internazionali all’Università di Harvard, è intervenuto con un articolo duro e volutamente provocatorio, ma difficilmente contestabile nella premessa, i fallimenti americani dalla Siria alla Palestina alla Libia all’Afghanistan. Il titolo: «Non facciamo (più) danni. Ogni volta che gli Stati Uniti toccano il Medio Oriente, peggiorano le cose. E’ venuto il momento di ritirarci, senza voltarci indietro».
Il momento è per Obama particolarmente difficile, ed è risultato evidente il suo sforzo di calibrare attentamente ogni parola, consapevole com’è di quanto sia problematica questa decisione di tornare a coinvolgersi militarmente nella sempre più inquietante vicenda irachena. Non è certo facile, infatti, spiegare agli americani che non si tratta di un «ritorno in Iraq» dopo che il Presidente aveva fatto della chiusura della disgraziata avventura militare di George W. Bush un elemento essenziale della sua prima campagna elettorale e poi della sua presidenza. E soprattutto non è facile affrontare politicamente una contraddizione di fondo che, anche non volendo considerare l’ostilità sistematica e spesso pretestuosa dell’opposizione repubblicana, caratterizza il sentire maggioritario dell’opinione pubblica americana, riluttante ad approvare nuove spese militari e nuove perdite di «American boys», ma anche critica di un Presidente visto come incapace di mantenere la centralità degli Stati Uniti sulla scena internazionale.
Obama si dibatte non da oggi in questa contraddizione, ma è l’Iraq, prima origine dell’attuale crisi regionale, che lo obbliga comunque ad agire, a «fare qualcosa», come gli viene richiesto da più parti.
Ma fare qualcosa, a questo punto della drammatica vicenda irachena, non può consistere – come sarebbe nelle sue preferenze - in iniziative in campo diplomatico o economico, e quindi Obama, che pochi giorni fa, nel suo discorso di West Point, aveva detto che «non tutti i problemi si possono risolvere con un martello» (l’impiego della forza militare) è oggi costretto a sua volta a brandirlo. Lo fa definendo in modo restrittivo la missione affidata alle forze armate, ma non c’è da sorprendersi se i suoi critici fanno notare che gli interventi militari cominciano sempre con un mandato ristretto, ma spesso finiscono per scivolare in un impegno più ampio, con l’impiego di forze di terra (boots on the ground), che in questo caso sono già presenti sul territorio iracheno, e che potrebbero essere coinvolte nell’offensiva dei jihadisti innescando inevitabilmente un’escalation.
Ma dalle stesse parole del Presidente – quando ha detto che stabilizzare la situazione in Iraq «non sarà questione di settimane» - emerge in modo inequivocabile il fatto che, anche se l’intervento viene giustificato da un’emergenza, per prevenire il precipitare degli eventi verso uno sbocco catastrofico, non si può certo pensare che le cose si concludano rapidamente.
In altri termini, sembra difficile negare che gli Stati Uniti siano «tornati in Iraq».
Obama si è certamente deciso ad intervenire dopo che si è rivelato illusorio sperare che per fermare l’offensiva dello Stato Islamico potessero bastare – a compensare la disastrosa inconsistenza dell’esercito iracheno - da un lato i combattenti curdi, i peshmerga, e dall’altro i volontari sciiti. Invece i peshmerga, pur essendo una forza combattente credibile e motivata, non sembrano in grado di arrestare l’avanzata jihadista, mentre i volontari sciiti non hanno la necessaria professionalità per far fronte a combattenti che ormai è assurdo definire «terroristi» quando sono in realtà una vera e propria forza armata. Ed è anche interessante, per capire a pieno la natura dell’impegno americano, sottolineare che il Presidente ha spostato il discorso dal piano militare a quello politico, affermando che dietro la debolezza militare dell’esercito iracheno vi è una debolezza politica che andrà superata con una svolta del governo verso maggiore coesione e credibilità.
Ma perché Obama si decide ora ad autorizzare un intervento militare, mentre ha resistito, nonostante le pesanti critiche che gli sono state rivolte, alle pressioni a favore di un intervento militare nel conflitto siriano?
L’America ha preso posizioni non ambigue nei confronti della spietata repressione prima dei dissidenti e poi dei ribelli, ma non era certo il regime siriano ad essere considerato una fonte di preoccupazione, tanto è vero che Assad, prima della crisi iniziata nel 2011, era considerato un elemento di stabilità regionale, in primo luogo per la garanzia che dava ad Israele la lunga quiete sulla frontiera del Golan.
Se mai è la prospettiva di una vittoria dei ribelli – nelle cui file prevalgono i jihadisti, mentre si fa molta fatica a credere seriamente all’esistenza di una credibile «opposizione moderata» – ad aprire scenari inquietanti per tutta la regione. L’Isis, oggi Stato Islamico, costituisce invece una sfida palese, anzi clamorosa nella sua combinazione di islamismo retrogrado e feroce, capacità di costruire alleanze (in particolare con i residui del baathismo) ed efficienza militare.
E anche se la dimensione umanitaria forse non è più così sentita in un’America stanca dei costi umani e finanziari sostenuti a fronte di evidenti sconfitte, dall’Afghanistan alla Libia, quello che sta avvenendo in Iraq è così disumano da giustificare probabilmente, agli occhi dell’opinione pubblica, un’azione americana.
Nel Nord dell’Iraq, infatti, si sta sviluppando un dramma umano ancora più estremo, nella sostanza, di quello che caratterizza uno scontro fra combattenti, con le atroci conseguenze di perdite più o meno collaterali (in realtà spesso mirate) di civili. Nei confronti degli Yazidi, un’antica setta religiosa, i jihadisti, che li considerano «adoratori di Satana», stanno infatti applicando un vero e proprio, ed esplicito, programma di genocidio – termine spesso abusato ma in questo caso effettivamente applicabile - con uccisione degli uomini e riduzione in schiavitù delle donne. Per i cristiani, nello stesso tempo, è in corso una spietata campagna di pulizia etnica, che sta rapidamente portando alla scomparsa di antiche comunità che fino ad oggi avevano mantenuto la propria fede e la propria coesione attraverso le complesse vicende storiche della regione.
In altri termini, non vi è niente di falso o di strumentale nel discorso di Obama: vera la minaccia costituita dallo Stato Islamico, autentica la motivazione umanitaria.
Eppure è inevitabile chiedersi, alla luce delle disastrose esperienze di questi ultimi anni, dove possa portare il piano inclinato di un intervento militare «limitato».
Forse verso altre sconfitte, verso un’ulteriore perdita di credibilità di un’America di cui spesso critichiamo la pretesa di eccezionalità e i troppi «due pesi/due misure», ma la cui eclissi ci preoccupa, dato che non si vede chi e come possa svolgere al suo posto una funzione di leadership in un sistema internazionale sempre più in decomposizione.
Ed inoltre, forse quest’ultima sfida irachena, qualora dovesse concludersi con un’ennesima sconfitta, potrebbe finire per rafforzare, negli Stati Uniti, tendenze all’isolazionismo, o quanto meno al ripiegamento dal Medio Oriente. Stephen M. Walt, docente di Relazioni Internazionali all’Università di Harvard, è intervenuto con un articolo duro e volutamente provocatorio, ma difficilmente contestabile nella premessa, i fallimenti americani dalla Siria alla Palestina alla Libia all’Afghanistan. Il titolo: «Non facciamo (più) danni. Ogni volta che gli Stati Uniti toccano il Medio Oriente, peggiorano le cose. E’ venuto il momento di ritirarci, senza voltarci indietro».
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