domenica 10 agosto 2014

"L'ITALIA DEVE FARE L'ITALIA" . FORSE IL PROBLEMA E' CHE GLI ITALIANI CONTINUANO A FARE GLI ITALIANI


Dopo quasi tre anni di supergoverni tecnici, misti e pseudocarismatici, con l'Italia ancora in recessione e Draghi che fa capire che probabilmente l'unica strada è la definitiva perdita di sovranità nazionale , anche gli editorialisti più vicini al premier iniziano a dubitare, osservando il gap tra parole e fatti.  Panebianco è tra questi. Giustamente ricorda come innanzi tutto in Italia, più ancora che nel resto dell'occidente (dove pure la malattia è diffusa), il problema principale per un cambiamento risanatore sono i cittadini del paese.  Cresciuti con un welfare onnicomprensivo e un benessere diffuso alimentato attraverso la spesa a debito, arroccati in miriadi di corporazioni agguerrite, solo coi fucili alla tempia subiremo quello che ci viene da anni detto di fare e che pervicacemente non facciamo.
E non sarà Renzi a cambiare verso, come mi pare si stia accorgendo, dal dilatarsi dei tempi che si dà (vuole 1000 giorni, Letta l'ha sloggiato dopo 9 mesi), e da un qual certo mettere le mani avanti di chi si avvede che è più facile che cada lui piuttosto che l'Italia si faccia "rivoltare come un calzino", come amano dire i suoi. 
Di fronte a questa realtà, alla prospettiva del commissariamento si può provare a contrapporre, suggerisce Panebianco, quella di cambiamenti parziali, comunque migliorativi del presente.
La riforma del Senato, con il venir meno del bicameralismo perfetto, è un segnale in questo senso, dice il politologo. 
Adesso bisogna fare altro, e per farlo bisogna avere conoscenze adeguate, che non basta dire "lotta alla burocrazia", se non si ha la cognizione delle norme che vanno abrogate per impedire che burocrati amministrativi e giudiziari continuino a difendere lo status quo con successo. 
Insomma, la politica non può fare miracoli, ma qualcosa sì. Per farlo, deve essere più umile. Chi deve capire, capisca.




GUARDANDOCI ALLO SPECCHIO
di ANGELO PANEBIANCO
 


A giudicare dalla diffusa resistenza a qualunque accenno di bonifica e di razionalizzazione della spesa, una parte cospicua della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo, non prende sul serio, e non lo ha mai fatto, i continui e severi moniti delle autorità nazionali, europee, internazionali. L’aneddotica che ci viene quotidianamente presentata dalle cronache è nutrita ma coglie solo la punta dell’iceberg: dipendenti Alitalia che si oppongono all’unico accordo che può salvare e rilanciare l’azienda, commessi parlamentari che difendono emolumenti indifendibili, addetti di municipalizzate locali in fortissima perdita pronti a fare le barricate a difesa dello sperpero di denaro ai danni dei contribuenti, eccetera. È inutile negarlo: il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti gli osservatori, e dalla stessa classe politica di governo, deve fronteggiare una resistenza e una opposizione «di popolo». È questa la ragione per cui, anche se pochi lo dicono, molti lo pensano: forse fu un errore non accettare il commissariamento europeo. Sarebbe servito a vincere resistenze così diffuse. È un fatto che la Spagna, dopo avere pagato un alto prezzo, ora naviga finalmente in acque migliori delle nostre (aiutata, va detto, dai soldi che l’Europa ha dato alle sue banche).
Cosa può fare la politica, e soprattutto la politica democratica, se componenti quantitativamente assai rilevanti della società italiana si oppongono alle tanto invocate riforme? Non sbagliamo quando pretendiamo che assuma un ruolo salvifico? Non ne sopravvalutiamo capacità e possibilità? Perché mai la politica dovrebbe essere in grado di salvarci contro la nostra volontà?
In una democrazia i politici dipendono dai voti degli elettori. Se gli elettori non vogliono una cosa i politici non possono farci proprio nulla. Si può supporre che sia per questo, in realtà, che le promesse e le proposte dei vari leader appaiano sempre così poco credibili. Forse è per questo, ad esempio, che non è credibile la destra la quale oggi, per gioco delle parti, critica la politica economica di Renzi ma non è mai stata in grado di spiegarci perché in tanti anni di governo non abbia fatto quegli interventi, a cominciare dai tagli alla spesa pubblica, che andavano fatti. E forse è per questo che comincia a consumarsi anche Renzi, ad apparire sempre meno credibile: troppe parole, troppe promesse.
In realtà, le cose sono più complicate. Perché se è vero che la resistenza al cambiamento è forte e diffusa, e i ricatti elettorali che subiscono i politici sono potenti, è anche vero che se l’economia non riparte, sarà a quegli stessi politici che verrà poi presentato il conto, saranno loro a fungere da capri espiatori.A dispetto della retorica imperante, a dispetto del fatto che soprattutto i leader parlano di se stessi come se fossero onnipotenti, la politica «non cambierà l’Italia». Nel bene e nel male l’Italia è questa e resterà più o meno uguale a se stessa per anni e anni a venire. Ma senza esagerare, senza sopravvalutare le possibilità della politica, riconosciamo che alcune cose possono essere comunque fatte.
Checché ne pensino molti, ad esempio, chi scrive ritiene che la riforma del Senato non sia affatto un «parlar d’altro» ma possa servire, in prospettiva, anche alla crescita economica del Paese. Perché indebolendo i poteri di veto connessi al bicameralismo paritetico può migliorare l’efficacia degli interventi dell’esecutivo. Per il resto servirebbe, da parte dei politici di governo, un po’ di umiltà. Facciamo un esempio. Come ha ricordato Mario Draghi, contribuisce a scoraggiare gli investimenti in Italia l’eccesso di burocrazia, il fatto, ad esempio, che occorrano otto o nove mesi per ottenere le autorizzazioni a fare impresa. Si può cambiare questa situazione? Forse sì, ma non a colpi di slogan. Non basta evocare, come ha fatto Renzi, la «lotta alla burocrazia». Occorre affrontare, anche con strumenti conoscitivi adeguati, una situazione molto complessa costituita da un reticolo di vincoli normativi, di routine amministrative distorte, di resistenze burocratiche alla innovazione.
La politica non può fare tutto. Solo qualcosa. Ma per riuscirci deve rispettare una condizione. Non le si può chiedere di rinunciare alla demagogia (che è indispensabile per ottenere voti). Si può però pretendere che affronti problemi complessi con intelligenza. Con meno superficialità, per lo meno.

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