mercoledì 24 settembre 2014

DIETRO RENZI E IL JOBS ACT, LA TROIKA ?


Mi è sembrata interessante l'analisi di quanto sta accadendo nei palazzi della politica intorno alla riforma del lavoro. Se ha ragione Verderami, non si tratta "solo" del Jobs Act in sé ma del punto di svolta della legislatura e degli equilibri interni del PD (ma non solo).
Stavolta il braccio di ferro sarebbe autentico, e questo perché dietro la riforma ci sarebbe un'intesa e una promessa con le istituzioni internazionali : Commissione europea, BCE, Fondo Monetario. Insomma la famigerata troika, che tanto ha influito sui destini degli altri pigs (Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo). In buona sostanza, fuori dai confini si sono stancati dell'ammuina, e vogliono fatti concreti.
A suo tempo la riforma previdenziale fu fatta grazie a questa pressione, con lo spread in fiamme...vedremo come andrà stavolta, con noi che continuiamo ad essere il fanalino di cosa dei paesi industrializzati.
Renzi ha l'arma del Decreto, e Napolitano, che la negò a Monti, stavolta sembra disponibile a farla passare.



Berlusconi propose al premier: 
facciamo un partito insieme
No di Renzi. E il leader vara «l’operazione Lassie» per attrarre senatori ncd
 


 Non è detto che userà l’arma del decreto per la riforma del lavoro, ma potrebbe farlo. È questa in fondo la vera svolta: Napolitano è pronto a concedere a Renzi ciò che non concesse a Monti due anni fa, quando sulla stessa materia vietò il provvedimento d’urgenza per «favorire — così disse — un’intesa in Parlamento». Se il Colle ha cambiato verso è perché l’Italia si trova aggrappata a questo governo, alle garanzie che ha fornito e che — come racconta un autorevole ministro — «garantiscono a loro volta il sostegno di una coalizione internazionale che va dal Fondo monetario alla Commissione europea, dall’Ocse alla Bce».
Ma le condizioni per Renzi sono stringenti, e Prodi — che quel mondo lo conosce — ne ha rivelato a modo suo i dettagli in un passaggio dell’intervista concessa la scorsa settimana a Ballarò : «Quando in Europa si prendono impegni, poi bisogna fare alla lettera quello che si è detto a voce». La libertà di manovra parlamentare concessa al premier confina quindi con il patto vincolante sul testo del provvedimento. Si vedrà se Renzi userà lo strumento del decreto, ma c’è un motivo se ha voluto accelerare alla vigilia del viaggio negli Stati Uniti e prima della visita alla City di Londra, che fonti di governo dicono starebbe preparando: il leader del Pd non vuole (né può) tornare indietro.
È una mossa maturata a ridosso dell’estate, concordata con gli alleati di maggioranza, cui chiese di pazientare perché mirava intanto a incassare il voto del Senato sulla riforma costituzionale, ed era necessario evitare fibrillazioni. E quando in agosto Alfano affondò il colpo sull’articolo 18, il premier chiese di non andare oltre: «Andiamoci piano in questa fase o rischia di saltare tutto». Il progetto era ancora in via di preparazione. Ora che è tutto pronto, la riforma del lavoro potrebbe diventare — più della riforma elettorale — l’incubatrice della Terza Repubblica, per effetto della forza centrifuga che sta generando nei partiti.
D’altronde (quasi) tutti sono aggrappati a Renzi: chi per convinzione, chi per scelta, chi per disperazione. Non più tardi di un mese fa, per esempio, Berlusconi ha proposto al capo democrat di lavorare insieme per fondare addirittura un partito, rinnovando l’offerta avanzata quando lo ricevette ad Arcore da sindaco di Firenze. Ora come allora ha ricevuto la stessa risposta. E poco importa se nell’ultima offerta c’era il riconoscimento implicito dell’errore compiuto a suo tempo con la rottura delle larghe intese: il Cavaliere, vista la porta chiusa, sta tentando di rientrare in gioco dalla finestra.
L’operazione ha un nome in codice, perché al leader di Forza Italia piace darne uno alle sue imprese: nel 2008 — quando puntava a far saltare il governo Prodi — la chiamò «Operazione libertà». Adesso invece l’ha chiamata «Operazione Lassie». L’obiettivo è «riportare a casa» una parte dei parlamentari passati con il Nuovo centrodestra, preferibilmente senatori, così da far saltare gli equilibri a palazzo Madama — dove la maggioranza è risicata — e diventare numericamente determinante per il sostegno al governo.
Se è vero che la politica oggi è prigioniera di Renzi, Renzi non vuol diventare prigioniero dei suoi stessi prigionieri, e usa i patti per divincolarsi da chi vorrebbe aggrapparsi a lui. D’altronde — dopo la mossa di Napolitano — cos’altro gli chiede la minoranza del Pd se non un patto sulla riforma del lavoro? Perché — a detta di Bersani — ciò che propone l’esecutivo sull’articolo 18 «è inaccettabile. Sarebbe umiliante per la nostra storia». In effetti, per quanti sfilarono con Cofferati e altri tre milioni di persone a Roma nel 2002, dover dire «sì» a Renzi dopo aver detto «no» a Berlusconi sarebbe un gigantesco contrappasso.
E siccome non sono più i tempi della Bolognina, non ci sono più margini per scissioni a sinistra, e — visto l’intervento del Quirinale — nemmeno per altre soluzioni di governo, il rischio è la capitolazione, la cessione delle ultime quote sociali della «ditta». Ecco perché la minoranza del Pd tenta lo spariglio e parte all’assalto della legge di Stabilità, chiedendo che se ne discuta lunedì in direzione: vuole arrivare a un compromesso sul lavoro. Ma può Renzi stringere un patto con Bersani che non sconfessi il patto sottoscritto con l’Europa, senza dover scendere a patti con il Cavaliere? Una via d’uscita ci sarebbe: il decreto.

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