venerdì 10 ottobre 2014

"IL QUIRINALE NON E' UN'AULA". LA CORTE SPIEGA PERCHE' GLI IMPUTATI NON SIANO AMMESSI AL COLLE


Mi sembra giusto riportare l'articolo di Giovanni Bianconi, del Corriere della Sera, dove viene dato spazio alle motivazioni con le quali la Corte d'Assise di Palermo ha rigettato la richiesta degli imputati del cosiddetto processo della trattativa Stato Mafia di assistere alla testimonianza del Presidente della Repubblica. Curiosamente l'articolo più chiamato in causa è lo stesso, il 502 del codice di procedura penale, in base al quale la Procura aveva espresso un parere opposto. 
Su questa vicenda avevamo riportato una considerazione di Adriano Sofri, che condividevamo (semmai era la testimonianza che NON si doveva ammettere, salvaguardando le prerogative del Quirinale), e poi il bell'articolo dell'amico e avvocato Massimiliano Annetta ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/10/annetta-commenta-la-decisione-della.html ). 
Un provvedimento che inevitabilmente suscita critiche e polemiche (molti peraltro quelli che lo hanno salutato come puro "buon senso"), e dove non mancano le sguaiate uscite dei soliti noti : ortotteri e quella pessima donna che ormai è Sabina Guzzanti. Ma la signora è disturbata dai suoi continui flop artistici (il suo film, oltre ai parenti e agli amici stretti, lo hanno visto pochi altri : magari la solidarietà a Riina serve anche a risollevare le sorti del botteghino..), qualcuno potrebbe anche compatirla. 



«Il Colle non è un’aula di giustizia» 
Niente boss all’udienza di Napolitano
Respinta anche la richiesta di Mancino. Sabina Guzzanti: solidarietà a Riina e Bagarella
 


 Il palazzo del Quirinale non è un luogo come un altro, né può essere paragonabile a una normale aula di giustizia. D’altro canto il diritto di difesa non risulta compromesso dall’assenza dell’imputato, rappresentato dai suoi avvocati e in grado di porre questioni sull’atto al quale non ha assistito nel seguito del dibattimento. Sulla base di questi due principi-chiave, la corte d’assise di Palermo ha ribadito il suo no alla partecipazione dei capimafia Riina e Bagarella e dell’ex ministro Nicola Mancino (che ne avevano fatto specifica richiesta) all’udienza del processo sulla cosiddetta trattativa fra lo Stato e Cosa nostra in cui testimonierà il presidente della Repubblica.
In pochi minuti il presidente della corte Alfredo Montalto ha letto ieri mattina la lunga e articolata ordinanza che il prossimo 28 ottobre lascerà gli imputati fuori dal portone del Quirinale. Suscitando non poche perplessità nei pubblici ministeri, che avevano espresso opposto parere nel timore che una simile decisione possa inficiare la futura sentenza, e l’immediata eccezione di nullità da parte dell’avvocato Nicoletta Piergentili, difensore di Mancino. Alla quale, presto, si aggiungeranno quelle dei legali di Riina e Bagarella. Tuttavia quest’atto è già una pietra militare nella storia giudiziaria d’Italia, il primo che regola le modalità di una deposizione mai verificatasi in un processo penale che per l’occasione diventa «a porte chiuse» sebbene non segreto.
Cinque pagine scritte in punto di diritto, foriere di reazioni politiche che poco o nulla hanno a che vedere con i rifermenti giuridici indicati. Chi ha gridato allo scandalo per il parere favorevole della Procura alla partecipazione degli imputati — basata anch’essa sull’interpretazione dei codici — ora si dichiara soddisfatto per lo «sventato pericolo» di portare i capimafia al cospetto del capo dello Stato; a sinistra come a destra. Viceversa chi sosteneva i diritti dei boss senza eccezione alcuna, grida allo scandalo; avendo come obiettivo più Giorgio Napolitano che i giudici di Palermo. Come Sabina Guzzanti che in rete ha commentato: «Solidarietà a Riina e Bagarella privati di un loro diritto».
Il ragionamento della corte parte sempre dall’articolo 502 del codice di procedura penale, preso a prestito per un evento inedito che la legge non regola altrimenti. In quella norma la presenza degli imputati nelle testimonianze rese a domicilio è un’eccezione, non la regola. Ma c’è da tenere presente l’eccezione contraria rappresentata dal luogo in cui il processo si trasferirà per un giorno: il palazzo in cui presidente della Repubblica esercita le sue funzioni. Esiste una «immunità riconosciuta alla sede» da una sentenza della Corte costituzionale che «impedisce, ad esempio, anche l’accesso delle forze dell’ordine, e quindi al giudice di disporne, con la conseguenza che non sarebbe possibile assicurare l’ordine durante l’udienza», come normalmente avviene nei tribunali.
Quanto al diritto degli accusati di partecipare personalmente alle udienze, questo è già limitato dalle videoconferenze imposte ai detenuti rinchiusi al «carcere duro»; sistema previsto «soltanto per le attività svolte nell’aula di udienza, e non anche per le attività processuali da svolgersi al di fuori di essa». Per esempio gli «esperimenti giudiziali» esterni, «ovvero l’ispezione dei luoghi». Dunque non tutte le attività processuali devono necessariamente svolgersi alla presenza degli imputati, e tra queste rientra un esame testimoniale che deve essere reso, per legge, in una sede che gode di una particolare immunità di «natura costituzionale».
Stesso discorso per la presenza del pubblico: non è un «valore assoluto», e in questo caso può essere esclusa per ragioni che comprendono persino «l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale». Infine, il diritto di difesa viene «comunque adeguatamente assicurato — scrivono i giudici — dall’assistenza tecnica e dalla facoltà di proporre domande da parte dei difensori che lo esercitano anche in forza di un potere di rappresentanza, legale e convenzionale».
Una decisione presa secondo una particolare interpretazione di norme e codici, legittima e discutibile insieme, che rende meno dirompente l’udienza al Quirinale e per questo viene giudicata «fondata e opportuna» dalla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. Ma per l’avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell’Unione Camere Penali, resta «fragile, erronea e rischia di diventare una mina vagante nel processo».

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