sabato 22 novembre 2014

L'ANATEMA DEGLI "ONESTI" STAVOLTA CADE SUL LEADER DEL PARTITO DI SINISTRA



Lo confesso. Il durissimo attacco che Renzi sta subendo da parte dei sindacati e il suo mantenere alta la testa - vedremo poi le condotte di governo concrete - mi fa empatizzare con lui per la prima volta da due anni a questa parte (cioè da quanto propose Prodi come presidente della Repubblica...lì si consumò il mio personale strappo da Renzino).
Ieri, durante la cena a casa di un caro amico, una bella ed elegante ospite mi ha chiesto per chi avrei votato, orfano di un adeguato riferimento politico liberale nello scenario attuale. Gli ho risposto che oggi mi asterrei, ma che sono attento nell'osservare l'operato del governo Renzi. Se partorisse qualche buona riforma nelle materie sensibili, chissà...sicuramente la sua polemica con le caste di sindacati e magistrati me lo ha reso meno antipatico.
L'attacco violento (verbalmente, ma attenti alle parole, che possono diventare pessime maestre) di Landini, il solito refrain che torna sugli "onesti" da una parte, sempre di chi parla, contro tutti gli altri, suscita, oltre che totale biasimo, anche una certa sorpresa visto che stavolta il bersaglio dell'anatema è l'attuale leader del partito forte della sinistra.
Ripeto, 'sta cosa stucchevole degli onesti, dei diversi perché "migliori" ha stufato, da tempo, anche perché stucchevole e falsa. Certo, se la dicono da soli, nei loro salotti, ristoranti, e sono convinti.
Anche i tifosi di calcio sono così.
La reprimenda di Pierluigi Battista di questo malvezzo è durissima, esemplare, da leggere e conservare
 


Dai fax ai girotondi 
Quell’eterna pretesa del monopolio morale
 Pierluigi Battista



Ancora una volta l’uso politico dell’«onestà». Non l’onestà che si richiede a tutti, la precondizione dell’agire politico, risorsa che nessuno schieramento può pretendere di monopolizzare. Ma l’«onestà» come arma contundente, il tic del dare del «disonesto» all’avversario politico. Malgrado le smentite, resta nel sospetto di «disonestà» lanciato ieri da Landini sui sostenitori di Renzi il retrogusto di un luogo comune avvelenato molto diffuso negli anni agonici della Prima Repubblica e nel cuore della Seconda: la pretesa della propria superiorità morale, la condanna nel girone infernale della «disonestà» del Nemico considerato antropologicamente portato all’immoralità.  
Una pretesa sempre meno fondata e credibile, tra l’altro, vista l’universalità trasversale di comportamenti eticamente discutibili. Nessuno è più autorizzato a scagliare la prima pietra.
È una corrente sotterranea che esonda e invade le piazze. Prima il «popolo dei fax», poi quello del «post it», poi i girotondi che si stringono non attorno a una fabbrica, luogo del lavoro e della sinistra del lavoro, ma attorno a un tribunale, luogo della legge e dell’ordine, ma soprattutto tempio dei magistrati che come angeli vendicatori rappresentavano per quel popolo là fuori il surrogato della lotta politica, la casta in toga deputata a ripulire la Nazione dai «disonesti» che la politica dei partiti, dei voti, della democrazia non riusciva a cacciar via. Una storia antica, una pretesa antica.
All’inizio degli anni Ottanta il dibattito politico italiano ruotò intorno al surreale quesito se i comunisti fossero da considerarsi veramente moralmente superiori agli altri oppure no. Una pretesa assurda ma che fu presa sul serio da tutti. La «questione morale» agitata da Enrico Berlinguer era questo: il dogma della propria diversità, il presupposto che tutti fossero cattivi, malvagi, ladri, disonesti, lottizzatori tranne i comunisti. La dicotomia di un mondo pulito e incorrotto, quello del Pci e di ciò che gli ruotava attorno, e di uno impuro, peccaminoso, immerso nel Male, quello che si identificava con tutti gli altri partiti.
Il povero Aldo Moro, prima di essere rapito e ammazzato con la sua scorta, invano in Parlamento assicurava che la Dc non si sarebbe fatta «processare» nelle pubbliche piazze. E invece la Democrazia Cristiana (con gli altri partiti di governo) si è fatta eccome processare nelle pubbliche piazze oltreché nei tribunali. Erano i «forchettoni» bersagliati dal Togliatti che nel frattempo faceva affluire nelle casse del Pci rubli a dismisura. Ma i «forchettoni» erano sempre gli altri. Nelle parole di Landini, certamente eccessive nella foga tipica del personaggio, e poi attenuate, parla inconsciamente questa tradizione. La stessa tradizione che portò un qualche «popolo» eterodiretto a circondare il Raphael, rifugio dell’Orco, dell’Arcinemico, Bettino Craxi e a umiliarlo in favor di telecamera con sprezzanti monetine: «Rubati anche queste». Non era forse il campione della Disonestà da linciare in piazza prima ancora che un tribunale ne decretasse l’eventuale colpevolezza?
Ma c’è sempre a sinistra uno più puro che ti epura, sosteneva Pietro Nenni, memore delle degenerazioni del giacobinismo che sfociò nel Terrore e nella mistica della ghigliottina tanto cara al Robespierre che veniva infatti glorificato come l’«Incorruttibile» (ma dopo averne mozzate tante, anche lui ebbe infine la testa mozzata). E anche nella Seconda Repubblica accadde che una setta dei puri, capitanata da Antonio Di Pietro, diventasse la casa di tutti gli epuratori. Per la verità non è che l’Italia dei Valori, con Razzi e Scilipoti, abbia richiamato sempre intransigenti seguaci dell’incorruttibilità alla Robespierre. E nei partiti che erediteranno la storia del Pci la pretesa tardo-berlingueriana di essere i portabandiera della «questione morale» non è stata accompagnata sempre da visibili applicazioni pratiche di quegli austeri princìpi. Era parso che il sindacato, aduso a ben altri impegni a difesa del lavoro, non si fosse fatto contaminare dai cascami velenosi del giustizialismo forcaiolo. Ma le parole (per quanto poi frenate) di Landini smentiscono questa convinzione. Noi onesti, loro disonesti appare ancora oggi una retorica facile da usare. 



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