L'altro giorno sul Garantista, che è un quotidiano garantista e di sinistra - una volta le due cose andavano insieme, oggi solo su quelle pagine e in pochi altri posti, che non sono via del Nazareno - c'era un'intervista a Pierre Carniti, uno del trittico storico del sindacato unito (gli altri due erano Lama, capo della CGIL, e Benvenuto, della UIL) che sul lavoro era lapidario : non ce n'è per tutti, per cui dovremmo portare la settimana di lavoro a 15 ore, finanziando il tutto con la solita patrimoniale.
Va bene, discorsi di un sindacalista del 1936 si penserà...Eppure Carniti fu uno di quelli che ebbe il coraggio di dividere il sindacato non seguendo in trincea PCI e Cgil (si dice che Lama fosse dissenziente, ma alla fine obbedì a Berlinguer) sulla questione Scala Mobile.
Al di là delle idee bislacche del vecchio segretario della Cisl, il problema dell'occupazione, non solo giovanile che scioccamente solo di quella si parla (un 45-50enne che perde il lavoro, con una famiglia da mantenere, sta messo peggio o megglio di un 20.30enne disoccupato ?), è quello più grave in Europa e nel nostro paese.
Lo dicono tutti o quasi, ma non si vedono ricette valide. Luca Ricolfi, tra i commentatori più sensibili da sempre al problema, tanto da aver immaginato una possibile riforma, chiamata Job Italia (http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/10/il-job-italia-lo-studio-di-ricolfi-per.html), piuttosto diversa da quella governativa (che tra l'altro è solo in nuce), vi ha dedicato numerosi articoli e anche oggi il suo editoriale su La Stampa affronta questo argomento.
Buona lettura
Sul lavoro il governo rischia il flop
E se avesse ragione la Camusso?
Nel sollevare il dubbio, lo dico subito, non mi riferisco alle proposte economiche della Cgil, e tantomeno alla baruffa sull’articolo 18. No, il sospetto che abbia ragione la Camusso, e torto il governo, mi è venuto su un’unica questione, che però ai miei occhi è anche la più importante: la situazione del mercato del lavoro e i mezzi per creare nuova occupazione.
Cominciamo dal mercato del lavoro. Secondo Renzi negli ultimi sei mesi sono stati creati 153 mila posti di lavoro, che certo non bastano ma segnalano finalmente un’inversione di tendenza. Secondo i sindacati, invece, bisogna guardare anche alla qualità dei posti di lavoro, all’andamento della disoccupazione, alle ore di cassa integrazione.
Chi ha ragione? Difficile dirlo con sicurezza, ma il pessimismo sindacale appare più fondato dell’ottimismo governativo. Secondo l’Istat negli ultimi sei mesi l’occupazione è aumentata, ma di sole 70 mila unità. L’aumento di 153 mila posti di lavoro proclamato da Renzi è solo frutto di un ingenuo trucco statistico, che gli anglosassoni chiamano cherry picking (scegliersi le ciliegie), ovvero presentare solo i dati che ci danno ragione: in questo caso confrontare i dati di settembre non con quelli di 6 mesi prima (marzo), ma con quelli del mese più basso dell’anno (aprile, in questo caso).
Si potrebbe obiettare che, se consideriamo solo le ultime due rilevazioni, ossia agosto e settembre, l’aumento è di 83 mila posti di lavoro, un risultato decisamente positivo.
Ma qui intervengono ben tre contro-obiezioni dei sindacati. Primo, in attesa dei dati Istat più analitici, nulla sappiamo della qualità dei nuovi posti di lavoro, e tutto lascia pensare che l’aumento possa essere dovuto soprattutto alla sostituzione di posti di lavoro full-time con posti di lavoro part-time, una tendenza che non si è mai interrotta negli ultimi 10 anni. Secondo, fra agosto e settembre la disoccupazione non è affatto diminuita, bensì è aumentata di 48 mila unità. Terzo: sempre fra agosto e settembre sono esplose le ore di cassa integrazione, e questa tendenza è proseguita fra settembre e ottobre. Se si convertono le ore di cassa integrazione in posti di lavoro, e si correggono i posti di lavoro nominali con i posti di lavoro congelati dalla cassa integrazione, si scopre che l’occupazione reale (fatta di posti di lavoro in cui si lavora) non è aumentata di 83 mila unità ma è diminuita di 145 mila. Il che, forse, spiega l’aumento dei disoccupati registrato dall’Istat, un dato che ad alcuni è parso in contrasto con l’aumento dell’occupazione.
Primo round: Camusso 1, Renzi 0.
Ma passiamo al secondo round. Dice Renzi che «i sindacati passano il tempo a inventarsi ragioni per fare scioperi, mentre io mi preoccupo di creare posti di lavoro». Susanna Camusso gli risponde che «se fosse vero che il governo ha intenzione di creare posti di lavoro, le norme che ci sono nella legge di stabilità rispetto ai precari sarebbero tutte diverse». Sono convinto anch’io che talora i sindacati scioperino per scioperare, e naturalmente non nutro alcun dubbio sul fatto che Renzi desideri creare posti di lavoro. Però il punto sollevato dalla Camusso è di sostanza, non di buona o cattiva volontà. La domanda cruciale non è che cosa sogna Renzi, ma è se le norme varate dal governo, in particolare la riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro prevista dalla Legge di stabilità, siano idonee a creare nuovi posti di lavoro, dove per «nuovi» si deve intendere posti che senza quelle norme non sarebbero mai nati.
Secondo la Cgil no: se Renzi puntasse davvero a massimizzare i nuovi posti di lavoro, «non distribuirebbe fondi a pioggia alle imprese, ma li vincolerebbe alle assunzioni». Qui le obiezioni della Cgil collimano perfettamente con le perplessità degli studiosi, che si possono riassumere in almeno cinque osservazioni.
Primo: la decontribuzione riguarda solo gli assunti nel 2015, quindi non potrà fornire una spinta permanente all’economia. Secondo: la decontribuzione non richiede all’impresa beneficiaria di aumentare l’occupazione e quindi, nella maggior parte dei casi, si risolverà in un regalo alle imprese. Terzo: è molto improbabile che i pochi fondi stanziati per il 2015 (1,9 miliardi) bastino a coprire le richieste, che saranno tantissime proprio perché nulla si pretende dalle imprese. Quarto: la previsione governativa che i lavoratori assunti con la nuova formula siano 1 milione implica che i relativi posti di lavoro siano quasi tutti part-time, un po’ come i mini-job alla tedesca (lo sgravio medio preventivato dal governo è di soli 5000 euro per addetto, più o meno quel che paga un datore di lavoro per un assunto part-time). Quinto: proprio perché non può creare un numero apprezzabile di posti di lavoro addizionali, la decontribuzione governativa non si finanzia da sé (attraverso l’aumento del Pil generato dai nuovi posti di lavoro), ma richiede ogni anno di essere rifinanziata, cosa per cui il governo non ha le risorse.
Fine del secondo round: Camusso 1, Renzi 0.
Arrivati a questo punto, qualche lettore potrebbe obiettare che è tutto da dimostrare che la decontribuzione prevista dal governo non produrrà molti posti di lavoro. E allora lasciamo parlare il governo. Nella Legge di stabilità (che è scritta dal governo, non da me) si prevede che l’impatto complessivo delle decine e decine di misure della legge stessa sia di appena 40 mila nuovi posti di lavoro. Anche assumendo che tutte le altre misure non creino un solo posto di lavoro, e che l’intero merito vada alla sola decontribuzione, si tratta di un risultato davvero modesto. Un risultato che è reso ancora più deludente dalla lettura di quel che la Legge di stabilità prevede per il lontano 2018: un tasso di occupazione e un tasso di disoccupazione quasi identici a quelli attuali, con circa 3 milioni di disoccupati.
Se queste sono le prospettive, forse non sarebbe male che il governo, fra un tweet e l’altro, trovasse cinque-minuti-cinque per ascoltare non solo la Cgil ma le tante voci che, in queste settimane, hanno posto il medesimo problema: la norma prevista dal governo non pare lo strumento più incisivo per creare veri nuovi posti di lavoro. Ne ha scritto Tito Boeri sul sito lavoce.info, ne abbiamo parlato noi, come Fondazione Hume e come Stampa, con la proposta del job-Italia, ne ha discusso Confartigianato pochi giorni fa a Torino, ne ha parlato più volte in pubblico Giorgia Meloni, che sul nodo fondamentale della «addizionalità» dei posti di lavoro ha anche depositato un emendamento al Jobs Act.
Su una questione come questa, il presidente del Consiglio non può cavarsela con una battuta. Perché, è vero, la Cgil troppo spesso ha lo sguardo rivolto al passato, ma in questo caso è vero precisamente il contrario: la battaglia per creare nuovi posti di lavoro è la battaglia cruciale del nostro futuro.
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