domenica 23 novembre 2014

OSTELLINO : IL PENSIERO DI UN LIBERALE SULLE CASE ABUSIVAMENTE OCCUPATE



Sulla querelle delle case occupate abusivamente, nessuno meglio di Piero Ostellino può autorevolmente spiegare il punto di vista di un Liberale su da che parte stia la ragione. Già ieri, nella sua rubrica settimanale sul Corsera ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/11/occupano-una-villetta-privata-il.html ), il bravo giornalista aveva duramente biasimato il giudice che aveva assolto una coppia di rumeni dediti alla pratica dell'occupazione senza titolo sull'assunto che erano "bisognosi".
Oggi torna più diffusamente sul tema, e lo fa da par suo.
Buona Lettura



Occupazioni abusive
chi giustifica fa torto alle vere vittime



Nei Paesi «normali» — che più correttamente sarebbe definire «civili» — la percezione e quindi la sanzione morale dei comportamenti devianti (che, prevenendoli, li scoraggi e, dopo che si siano concretati, li condanni) ha storicamente preceduto, politicamente e socialmente, la condanna legale. Dove accade — per lo più, nei Paesi di religione protestante — l’intermediazione pubblica e/o religiosa non giustifica, bensì scoraggia e condanna i comportamenti devianti, sanzionando eticamente la decisione giuridica. In Italia — Paese cattolico e controriformista — ciò non accade. C’è sempre un prete, o un progressista immaginario, in servizio permanente che provvede a giustificare, e ad assolvere, il deviante con una qualche motivazione sociale e/o politica. Lo si può constatare dal gran parlare che si fa sull’occupazione abusiva delle case e sugli interventi delle forze dell’ordine per sgomberarle. In tv e sui giornali pochi osano dire — nel timore di apparire insensibili verso i meno abbienti — che l’occupazione abusiva di una casa è un comportamento deviante e, in quanto tale, va condannata moralmente, comprendendo le ragioni dell’intervento sanzionatorio pubblico. Al contrario, prevale la convinzione che l’occupazione sia l’effetto di un «disagio sociale» — attribuibile, manco a dirlo, al capitalismo e al mercato — che, in qualche modo, va compreso, se non giustificato. Di qui gli attacchi a poliziotti e carabinieri, che fanno il loro mestiere, da parte dei giovani dei «centri sociali» e di movimenti cosiddetti «alternativi» — alternativi a che cosa, poi? alla democrazia rappresentativa? Adiamo… — senza che qualcuno chiami costoro col loro vero nome: delinquenti.
Si ignora come e su quale fondamento etico e sociale sia storicamente nato lo Stato moderno. Prevale l’idea che, una volta che il comportamento deviante si sia concretato, «non si può buttare sulla strada madri di famiglia e i loro figli», non comprendendo che, così, si legittima uno stato di fatto deviante e si defrauda chi alla casa avrebbe diritto — non fosse altro perché ha raggiunto, magari dopo una lunghissima attesa, i primi posti della graduatoria fra richiedenti fissata per legge. Non si capisce che è lui, l’inquilino defraudato, la sola vittima di un disagio sociale prodotto da una malintesa idea di socialità. Non si avverte che il giustificazionismo sociale è una regressione all’hobbesiano stato di natura, dove ciascuno si faceva giustizia da sé; è la negazione dello Stato moderno — che, col Leviatano, non è l’elogio dell’assolutismo, ma della cui sovranità è, allo stesso tempo, la metafora e la premessa storica. Sostenere, in queste circostanze, che l’Italia — tanto palesemente ancora fuori dalle conquiste etiche, politiche e giuridiche dell’Illuminismo — sia un Paese come gli altri, civile, entrato nella modernità, diventa francamente difficile…
La confusione fra Stato di diritto e Stato sociale è una palese distorsione logica e storica: l’uno provvede alla legalità, l’altro alla cosiddetta giustizia sociale. Dovrebbe essere la scuola a colmare tale deficit culturale. Ma non lo ha fatto, né lo fa; anzi, ha alimentato, e alimenta, la convinzione opposta che il concetto di «necessità sociale» debba prevalere su quello di «legittimità giuridica», accrescendo il degrado in corso, preludio della sua progressiva dissoluzione, di quel po’ di Stato che ancora rimane.
Intendiamoci: nessuno, tanto meno chi è liberale, sosterrebbe che lo Stato sia, hegelianamente, la forma attraverso la quale si concreta l’assoluto etico. Si lasci pure tale idealistica convinzione ai sostenitori di tutte quelle forme di assolutismo in nome delle quali gli uomini sono posti sullo stesso piano di sudditanza rispetto ad un potere autocratico — e si prenda solo realisticamente e finalmente (!) atto che lo Stato è nato dall’esigenza di dar vita al «governo della legge» contro quello precedente degli uomini. Ma è la situazione dell’Italia d’oggi? Palesemente, non lo è. L’opinione diffusa è che, al contrario, la condizione «giusta», attraverso la quale raddrizzare, di fatto, le diseguaglianze sociali è la negazione della modernità; una forma di regressione politica.
Là dove non è la scuola a formare nei cittadini il senso civico, dovrebbero provvedere l’associazionismo privato — i «corpi intermedi» fra società civile e mondo della politica di cui già parlava Tocqueville nella Democrazia in America — e media liberi (sempre Tocqueville). Ma i corpi intermedi, da noi, fanno l’opposto e — lo aveva denunciato Benedetto Croce in uno dei Frammenti di Etica — il giornalismo italiano aveva allora, e continua ad avere adesso, «paura di pensare» e di pronunciarsi. Teme di compromettersi, parlando di libertà individuali e di diritto di proprietà. E poi ci si chiede come, da noi, Mussolini abbia conquistato tanto facilmente il potere, lo abbia tenuto per anni, e altrettanto abbia fatto, e ancora faccia, la cultura politica collettivista e dirigista anche dopo lo storico fallimento del comunismo...

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