giovedì 6 novembre 2014

POLITO : "L'EUROPA STA PRENDENDO LE MISURE A RENZI"


Commentando lo scontro Junker - Renzi, Antonio Polito (non un fan del Premier, ma sempre pacato nelle sue critiche), consiglia al secondo prudenza. L'Italia sarà il grande paese che il capo del governo ama ripetere, ma da un po' se la vede brutta, con una economia in perdurante recessione (l'unica nella zona Euro, che anche la Grecia malmessa il segno + sulla crescita è tornato a metterlo, ancorché, va detto, è più facile quando si è toccato il fondo e oltre...). Continuando così, anche tenendo a bada il deficit tra tasse e (insufficienti) tagli lineari, la massa del debito non scende mai, e anzi, causa interessi (80 miliardi l'anno !), continua a crescere, a dispetto dei sacrifici (e infatti, nonostante il salasso dell'IMU di Monti, l'Iva aumentata da Letta, oltre a tutto il resto, si è varcato il muro dei 2000 miliardi, senza possibilità apparente di tornare al di sotto). 
Draghi tiene a bada gli spread, compreso il nostro, e questo ci dà respiro, ma per quanto tempo ? In questo non fausto scenario, litigare con la Commissione europea potrebbe non essere una buona idea, al di là del favore suscitato in patria dalla difesa dell'orgoglio nazionale (peraltro non particolarmente diffuso) e dall'antipatia (assai più radicata) per i "burocrati" di Bruxelles. 
Certo, dà un po' fastidio vedere come i francesi, che da anni sforano puntualmente il livello di deficit consentito e annunciano che continueranno a farlo, godano di una evidente maggiore indulgenza. 
Ma il debito francese, pure in forte crescita, non è pauroso come il nostro, e poi, le relazioni internazionali sono quelle che sono, e mentre quelle franco tedesche da tempo costituiscono un'asse solido, le nostre da molti anni non godono di buona salute.  Non siamo più gli italiani un po' monelli ma "simpatici" (siamo diventati cupi e pessimisti), e i nostri problemi debitori preoccupano quasi quasi più gli altri che noi indigeni.




Juncker, «burocrate» che Renzi sottovaluta   

 
Quando Matteo Renzi inveì contro i «burocrati di Bruxelles» aveva l’attenuante della tensione nervosa. Le voci di dentro dicono che l’ultimo Consiglio europeo è stato molto difficile per il premier italiano. Un certo isolamento politico, aggravato dalla (prevedibile) defezione di Hollande che si è fatto i fatti suoi, aveva indebolito la battaglia anti-austerità di Roma; fino al punto di dover accettare una correzione della legge di Stabilità, come richiesto nella lettera della Commissione. Così la prima campagna d’Europa per la «flessibilità» si è per ora conclusa con uno sconticino dello 0,2% all’Italia (la Francia se l’è cavata meglio) e un giudizio ancora sospeso per i nostri conti.
Sarebbe dunque opportuno che ora Renzi riconsideri la utilità di quella polemica anche alla luce della rispostaccia ricevuta da Juncker. Il fatto stesso che il presidente della Commissione europea abbia avuto l’ardire di bacchettare in pubblico il premier di un grande Paese la dice infatti lunga su quanto siano cambiate le cose a Bruxelles.
Juncker non accetta la definizione di «burocrate» per molte ragioni, la prima delle quali è che la sua legittimazione democratica è ormai pari, se non addirittura superiore, a quella di Renzi. Si sa che il nostro premier non è mai stato eletto; ma se lui può vantare l’investitura indiretta delle europee allora anche Juncker può farlo, e per la prima volta nella storia della Commissione, essendo stato il candidato del Partito popolare, vincitore del voto su scala continentale. Proprio attaccando Renzi, con la non irrilevante complicità di Manfred Weber, capogruppo europeo dei Popolari e intimo della signora Merkel, Juncker ha dimostrato che intende far valere fino in fondo questa sua «novità» rispetto agli sbiaditi predecessori: il giochetto di dare la colpa a Bruxelles, da sempre e da tutti praticato, non sarà più tanto facile d’ora in poi.
Inoltre la nuova Commissione non è composta da funzionari, ma da politici di primo piano nei loro Paesi: Katainen è un ex primo ministro, Moscovici un ex ministro dell’Economia, e spetterà proprio a loro vigilare sui nostri conti: difficilmente soffriranno di complessi di inferiorità.
Infine Renzi, snobbando il peso politico della Commissione, rischia di svalutare anche il ruolo che vi dovrebbe svolgere la vicepresidente Mogherini, per la quale si è invece tanto battuto: se è vero che da quella poltrona si può influire sulle materie economiche, per noi vitali, è il giunto il momento di dimostrarlo. Rischia altrimenti di diventare un po’ schizofrenico un governo in cui proprio ieri il sottosegretario Gozi, egli stesso un ex burocrate di Bruxelles, vantava di aver portato 20 italiani nei gabinetti di Bruxelles contro i 14 della precedente Commissione: non è che i burocrati nostri sono buoni e quelli degli altri no.
Trattare la Commissione europea come in patria si tratta la Cgil, cioè a sberle, può essere pericoloso. La tattica di alzare la voce con l’avversario di turno per dimostrare di aver vinto porta consensi nei sondaggi, ma mentre la Camusso non può aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia, Juncker questo potere legale ce l’ha, glielo danno i Trattati, e non dipende per la sua popolarità dai sondaggi italiani, magari più dai sondaggi degli anti-italiani.
L’impressione è che l’Europa stia prendendo le misure a Renzi. Nessuno gli è contro perché tutti sanno che il dopo potrebbe essere peggio; ma nessuno è disposto a credergli sulla parola. L’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in recessione e in deflazione, le sue prospettive continuano a essere fosche anche nel 2015; e a Bruxelles si è capito che la delega sul mercato del lavoro è ancora un oggetto misterioso, tranne che per gli effetti che sta provocando sulla pace sociale.
C’è dunque molto lavoro da fare, prima di prendersela con gli altri. Sarebbe del resto un insuccesso italiano se di questo semestre di presidenza della Ue, ormai quasi agli sgoccioli, non restasse altro che una scazzottata e qualche colpo basso. Non converrebbe di certo all’Italia, vaso di coccio in Europa per il suo immane, e crescente, debito pubblico. Il primo ministro dell’Italia non deve mai andare a Bruxelles con il «cappello in mano»; ma neanche può prendere cappello ogni volta che è in difficoltà.

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