mercoledì 24 dicembre 2014

GALLI DELLA LOGGIA IN DIFESA DEL NATALE


Approvo totalmente l'editoriale di Ernesto Galli della Loggia in "difesa" del Natale, che il "politicamente corretto" - cioè quel tipo di ipocrisia indigeribile che nasce nei salotti bene e poi si propaga nefastamente giù per li rami - vuole emarginare a fatto meramente privato, negando una dimensione collettiva della festività cristiana. Quest'anno, per fortuna, non si hanno notizie di maestre e/o direttori di scuola  dementi che hanno boicottato il presepe, in rispetto dei bambini di religione non cristiana.
Però bisognerebbe anche vedere quante scuole materne ed elementari hanno mantenuto questa tradizione. 
Negli Stati Uniti, che in certe cose sono sempre all'avanguardia della stupidità, già parlano di "Vacanze di stagione", Season's holiday, senza porsi il quesito del perché delle stesse. Siamo convinti, noi occidentali, che non credere in nulla ci rende più fighi.
In realtà siamo solo più deboli, e, adesso che il benessere non è più una prerogativa scontata e generalmente diffusa, anche piuttosto tristi.


Natale, elogio di quello vero
di Ernesto Galli della Loggia
 

Fino a quando le società europee oseranno ancora chiamare Natale il Natale, e non lo trasformeranno in qualcosa come « Season’s holiday » (Vacanza di stagione), sul modello ormai invalso nei politicamente correttissimi Stati Uniti, dove per l’appunto non si mandano più auguri di Buon Natale ma « Season’s greetings »?
Anche da noi, infatti, sta succedendo precisamente questo: sta ormai prevalendo — o ormai è già prevalsa — un’interpretazione nuova della libertà religiosa. Secondo la quale questa non consisterebbe più solo in una libertà — quella per l’appunto riconosciuta a chiunque di osservare la religione che preferisce, nei modi che preferisce, cercando altresì di divulgarla o di rinnegarla come preferisce — bensì, altrettanto essenzialmente, anche in un divieto . Essa comporterebbe cioè anche la proibizione per qualunque religione di trovare posto in qualsivoglia ambito pubblico, per paura che ciò possa offendere chi non fosse un suo seguace. Fede e culto, insomma, sono ammissibili ma solo a un patto: di restare un fatto privato. La società, lo spazio sociale, invece, devono restare nel modo più rigoroso liberi da ogni presenza o richiamo di tipo religioso. E proprio per questo — come è accaduto — un crocefisso in un’aula, o un presepe in una scuola, possono divenire oggetto di un esplicito divieto.
Tutto bene se non ci fosse un trascurabile particolare. E cioè che la religione — e poiché parliamo dell’Europa diciamo pure il Cristianesimo — ha occupato un posto enorme in quel decisivo ambito pubblico che fino a prova contraria è rappresentato dalla storia del continente. La storia: vale a dire tutto il vastissimo insieme dai profondissimi echi emotivi e psicologici, rappresentato dal folklore, dalle tradizioni, dalle feste, dalle abitudini quotidiane di ogni tipo di questa come di ogni altra parte del mondo. Vorrà pure dire qualcosa o no — tanto per fare un esempio — che almeno alcune decine di migliaia di località italiane e la maggior parte degli italiani portano il nome di un santo? E non vale, mi sembra, obiettare che ormai non sono in molti a dirsi esplicitamente cristiani. È vero. Ma con le sue mille propaggini l’universo storico-religioso resta ancora oggi un cruciale deposito d’identità collettiva profondamente introiettata, che si è trasfusa in una miriade d’identità individuali.
È per l’appunto in relazione a questo universo storico-identitario — di cui il fatto religioso costituisce un sostrato decisivo — che nelle società europee si sta delineando l’ennesima spaccatura tra masse ed élite.

Tra una maggioranza della popolazione che, seppure in gran parte non condivida più lo sfondo trascendente di quell’universo, tuttavia ancora sente con esso un rapporto tenace, ancora lo percepisce come vitalmente proprio, e dall’altra parte la maggioranza delle élite . Le quali, viceversa, sono rispetto ad esso indifferenti quando non insofferenti. Si tratta di una frattura che riguarda tutto l’universo identitario nel suo complesso (e dunque anche i temi decisivi della nazione, della sovranità nazionale e insieme della lingua). Cioè il vasto insieme del passato che, aggredito oggi capillarmente dalla globalizzazione, vede i «felici pochi» benevolmente disposti
a prenderne le distanze, a lasciarne andare via interi pezzi, mentre
gli « have not » non ci stanno e fanno resistenza. Sicché in tal modo le élite — come da tempo si nota specialmente nei Paesi deboli come il nostro — divengono tendenzialmente «progressiste», spregiudicatamente «moderne», mentre le masse sempre di più tendono oggettivamente ad apparire «reazionarie». Quelle masse che però quando festeggiano il Natale chiamandolo ancora Natale, festeggiano in qualche modo, pure se non lo sanno, una storia che finora era di tutti. 

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