mercoledì 24 dicembre 2014

IL MODELLO AMERICANO MOSTRA DI NON ESSERE AL TRAMONTO



Non sarà merito di Obama, il presidente zoppo che cerca di ribellarsi alla marginalizzazione degli ultimi due anni della sua storia presidenziale con iniziative come quella cubana, però è un fatto che, eletto l'indomani della più grave crisi economica della storia del mondo, quella del 2007, oggi può vantarsi di numeri, in questo campo, lusinghieri : borsa ai massimi storici, ma soprattutto crescita continua da un lustro, disoccupazione e deficit pubblico in deciso calo. Certo, non ci sono solo luci in tutto questo :  il debito pubblico americano è enorme, e la qualità dell'occupazione inferiore rispetto al passato (anche se la flessibilità da quelle parti è sempre stata la regola, così come cambiare posto di lavoro). Però loro sono in espansione, la loro tecnologia li ha portati a sfruttare lo shale gas, e ad acquisire non solo l'autonomia energetica ma anche un futuro di esportazione in un settore oggi occupato da altri. Soprattutto, ancora una volta, hanno mostrato come il loro modello capitalista sa essere flessibile, adattarsi per sopravvivere e anzi ripartire.
Sistemi alternativi validi quali ?


Un modello che funziona 
Le ragioni di una rivincita
di Massimo Gaggi 
 
 
Un messaggio di speranza e un’occasione di riflessione per chi continua a pensare che l’economia di mercato abbia un fondo patologico. E tende a bollare come «soluzione all’americana» ogni cosa che funziona ma segue un modello basato sull’efficienza e la capacità di produrre ricchezza. La notizia che l’economia Usa è cresciuta al ritmo del 5 per cento nel terzo trimestre del 2014 è anche questo. Molti di quelli che oggi esaltano la straordinaria capacità di ripresa degli Stati Uniti che tornano a essere locomotiva del mondo mentre l’Europa ristagna (o è in recessione) e l’Asia rallenta insieme al Brasile, nove mesi fa intonavano il de profundis per l’America davanti ai dati di un primo trimestre in recessione.
Solo effetto di un inverno straordinariamente freddo che per molti giorni ha tenuto quasi tutto il Paese a 15 sotto zero con nevicate a ripetizione e aeroporti a lungo bloccati, scrivemmo allora.
Ma lo scetticismo nei confronti dell’America restava, anche se era evidente che con bufere di neve a ripetizione (sedici nevicate in un solo inverno a New York) i consumi non potevano che rallentare. La tentazione del titolo eclatante che allora spingeva a parlare di America «in panne» oggi può portare a dipingere l’America come a un Paese che ha risolto i suoi problemi economici e, quindi, da imitare a pancia bassa. Non è così. La forte ripresa economica dipende, in parte, anche da un effetto-elastico: l’economia sta recuperando il terreno perduto nel gelo invernale: chi è rimasto a casa anziché andare dal concessionario a scegliere la sua nuova auto a febbraio, l’ha fatto a maggio o a luglio.
E, comunque, il più 5 per cento del terzo trimestre è un dato che non vedremo ripetersi a fine anno: a novembre, ad esempio, le vendite di beni durevoli (dai computer ai frigoriferi, tutto ciò che dura più di tre anni) sono addirittura calate. Mentre il forte aumento della spesa pubblica (+4,4 per cento), dovuto soprattutto a un’improvvisa impennata di quelle militari, è un dato che non dovrebbe ripetersi nei prossimi trimestri.
Insomma, la performance record di questo trimestre — la crescita più forte da 11 anni a questa parte — non si ripeterà con la stessa intensità nei prossimi trimestri. Ma il dato di fondo è che, a dispetto di una congiuntura internazionale negativa che agisce da freno, l’economia Usa è l’unica a tenere e a dimostrarsi dinamica. Non è solo il Pil del trimestre estivo: dietro c’è un’economia che cresce senza soste da più di cinque anni e che, come Barack Obama non si stanca di ripetere, ha creato posti di lavoro aggiuntivi per 57 mesi consecutivi con la disoccupazione che è ormai scesa dall’8 al 5,8 per cento. Col deficit pubblico che, intanto, è stato dimezzato.
Certo, anche questi numeri vanno presi con cautela: dentro ci sono molti lavori precari o part time . La flessibilità degli impieghi rende più dinamico il sistema produttivo, ma ha anche i suoi costi sociali. Se il presidente americano fatica a convincere il suo popolo (che lo ha sonoramente punito alle recenti elezioni di mid term ) di aver fatto un buon lavoro nonostante la sua pagella economica sia da dieci e lode se confrontata con quelle di Hollande, Renzi e, a ben vedere, anche Angela Merkel, non sorprende che molti anche da noi storcano il naso davanti alla «ricetta americana».
Gli Stati Uniti non sono di certo un modello da imitare in tutto e per tutto: godono di vantaggi economici, particolarmente in campo energetico (i nuovi giacimenti di shale gas), che l’Europa non può replicare. E hanno commesso errori che noi abbiamo evitato, come nel caso della rinuncia a investire in infrastrutture ferroviarie: col risultato che oggi, viaggiando da New York a Washington su pendolini traballanti, gli americani invidiano i TGV francesi e anche i nostri Frecciarossa (altro che No Tav).
Come la democrazia, anche il capitalismo ha mille difetti. Ma chi ha di meglio da proporre nel mondo d’oggi? Anziché continuare a scartare con sufficienza le «soluzioni all’americana» solo per sprofondare ancora di più nel nostro immobilismo, forse sarebbe ora di cercare una nostra via alla dinamismo economico e a una flessibilità totale: sapendo che flessibile non deve essere solo il lavoro, ma anche il resto, dall’organizzazione dello Stato alla mentalità degli imprenditori. Come nel caso della trasmissione del calo delle quotazioni del petrolio ai prezzi della benzina alla pompa: gli americani, che l’anno scorso hanno speso 370 miliardi di dollari per il carburante, quest’anno hanno già risparmiato ben 80 miliardi: reddito in più da spendere per le famiglie. E col prezzo medio della benzina ormai sceso a poco più di 60 centesimi di dollaro al litro, presto i risparmi supereranno quota 100 miliardi: una poderosa manovra a sostegno di economia e consumi. E in Italia?

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