Gli articoli di politica estera li leggono quattro gatti e quello di oggi saranno due, e tra questi, forse, il mio amico Alessandro, che non condividerà nulla del pensiero di Bernard Henry Levi. A me questo autore invece piace, anche se trovo il suo pensiero - quello espresso, chissà se l'uomo è veramente così - impregnato da eccessivo slancio ideale. BHL (viene generalmente indicato così) è stato il convinto sostenitore della guerra libica, dell'appoggio occidentale contro Gheddafi. Ha predicato, vanamente, un'analoga azione in Siria, contro Assad. Infine, era a piazza Maidan, in Ucraina, a sostenere la ribellione contro il Presidente in carica, poi fuggito in Russia. BHL è dalla parte degli ucraini che vogliono far parte dell'Unione Europea, e in questo articolo spiega perché il 2015 potrà essere l'anno di avvicinamento alla realizzazione di questo progetto e del declino invece del sogno imperiale di Putin, l'uomo forte in grande difficoltà a causa delle sanzioni ma forse, osservo, ancora di più per il clamoroso ribasso del petrolio, di cui la Russia è tra i principali esportatori.
Vedremo se questa previsione si realizzerà, magari solo in parte.
BHL in genere non ci prende.
Tramonta l’era Putin
il 2015
sarà l’anno
del riscatto ucraino
Se dell’anno 2014 dovessimo tenere a mente un solo evento, davvero uno solo, citerei quello ucraino.
Poroshenko. È raro che un evento importante non finisca con l’incarnarsi in un uomo. È costante, invece, che tale incarnazione, l’apparizione di un uomo simbolo, l’arte della Storia di impadronirsi di lui per innalzarlo, come diceva André Malraux, al di sopra di se stesso e renderlo più grande di sé, siano il segno che siamo effettivamente davanti ad uno degli eventi capitali. È una alchimia che ho osservato con Mujibur Rahman in Bangladesh; con Massoud in Afghanistan, quando la lotta fra i due Islam divenne una lotta all’ultimo sangue; con Izetbegovic in Bosnia, con Walesa in Polonia o con Havel nella Repubblica Ceca. Ebbene, a questa rara ma gloriosa compagnia di uomini-simbolo della grandeur odierna, si aggiunge ormai il nome di Poroshenko, uno sconosciuto che ho scoperto sulla piazza Maidan, ho poi portato a Parigi, e che ben presto è diventato il capo politico e di guerra, un uomo che ha tenuto testa a Putin quando tutti, o quasi, gli si prostravano davanti.
L’antisemitismo. Che l’odio per il nome ebreo sia stato una delle piaghe dell’Ucraina, una macchia sulla sua memoria, la sua vergogna, non è un segreto per nessuno. Pochi sanno, invece, che nel lungo processo di disattivazione del virus cominciato con la lotta comune contro il totalitarismo staliniano, l’evento 2014 ha avuto un ruolo decisivo. Ebrei con la kippah sulla piazza Maidan al fianco di nazionalisti ucraini o di cosacchi con il colbacco... Solidarietà delle due memorie di Holodomor e di Babi Yar, del massacro di massa per fame e della Shoah per fucilazione. E durante i lunghi mesi di questa Comune di Kiev, quando la libertà di parola non conosceva limiti, un miracolo: non una parola, non uno slogan, non un graffito antisemita... Sartre distingueva due tipi di gruppo in fusione: il linciatore e l’allegro. Il pogromista e il generoso. La fratellanza terrore e la fratellanza solidale. In questo caso, rientriamo chiaramente nel secondo schema. E una delle inestimabili virtù di questa rivoluzione è di aver continuato a mettere fuori legge l’antisemitismo storico dell’Ucraina.
La Francia. Fra le molteplici ragioni che mi hanno trattenuto dal partecipare all’«Hollande bashing», la campagna di diffamazione che nel 2014 ha fatto da sfondo alla vita politica francese, è senza dubbio il modo in cui fu pensato l’evento ucraino. Sono stato testimone dell’incontro fra il presidente francese e colui che non era ancora il suo omologo. Di come il primo ha invitato il secondo quando si sono visti in occasione delle cerimonie per l’anniversario dello sbarco in Normandia. Ma il vero grande gesto, quello di cui sono grato al presidente francese e che, ne sono convinto, la Storia gli riconoscerà, è stato di non consegnare le navi Mistral alla Russia. Fu una decisione coraggiosa. Probabilmente difficile da prendere. Che lo espose a ingiusti processi. In realtà, era l’unica decisione conforme alla logica (non si consegna, in piena guerra, materiale militare al nemico) e al tempo stesso al nostro rango (la Francia è una grande potenza, non uno «Stato commerciale» secondo Fichte) e ai nostri interessi.
L’Europa. Ho inveito abbastanza a lungo contro l’impotenza e l’abulia di una Europa incapace di rispondere all’appello dei giovani ucraini che morivano stringendo fra le braccia la bandiera stellata dell’Unione, per non rendere omaggio al fatto che comunque, nell’ultima parte dell’anno, ha finito con l’assumersi le sue responsabilità e ha cominciato a comportarsi adeguatamente. Sono state decise alcune sanzioni. Meglio, sono state attuate. Meglio ancora, si sono tramutate in effetti concreti. Caduta del rublo... Crollo dei mercati azionari a Mosca... Fuga massiccia di capitali... Come un tempo in Sudafrica, come in Serbia o in Iraq o come, molto presto, in Iran, la fermezza ha pagato.
Putin, infine. Penso ai commenti incantati cui abbiamo avuto diritto all’inizio della sequenza. Il grande giocatore di scacchi... L’ammirevole stratega... L’anima russa personificata e fusa in un corpo di ferro... Un anno dopo, a che punto siamo? La Crimea continua ad essere occupata. E il Donbass è messo a ferro e a fuoco. Ma il re Putin è nudo. La sua economia in rovina fa sì che all’improvviso egli non impressiona più quasi nessuno. La Russia stessa comincia ad avere dubbi sui suoi calcoli da vecchio agente del Kgb che forse non era all’altezza della propria megalomania. E mentre la Rada esprime all’unanimità il desiderio di aderire alla Nato, la duplice visita a Kiev dei due pilastri dell’Eurasia, i presidenti di Bielorussia e del Kazakistan, segna forse la fine del suo grande progetto imperiale...
Rimane da raggiungere lo scopo. Soprattutto, resta da attuare il vasto piano Marshall per l’Ucraina di cui ho lanciato l’idea, qualche mese fa, a Vienna. La ruota della fortuna è girata. Il Cremlino non parla più la lingua del destino. E non è ormai escluso che il 2015 sarà l’anno della vittoria per l’Ucraina.
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