Riporto questo scambio tra lettore che scrive e Sergio Romano che risponde, più per l'attualità delle parole di Indro Montanelli che per le osservazioni dell'ex ambasciatore , oggi apprezzato ( da me devo dire non tantissimo) politologo. Il pensiero amarissimo del grandissimo giornalista fu scritto nel 1997, come chiosa dell'ultimo volume della sua Storia d'Italia (come in tante case, presente anche nella mia libreria : i volumi me li regalava ogni anno mio padre per l'onomastico, il 26 dicembre) . Montanelli morì nel 2001. Non credo, a differenza di Romano, che a distanza di ormai quasi 14 anni scriverebbe cose molto diverse.
Un poscritto di Montanelli
Fra rabbia e delusione
Come giudica queste parole di Montanelli? «No. Sangue non ce ne sarà: l’Italia è allergica al dramma e per essa nessuno è più disposto ad uccidere e tanto meno a morire. Dolcemente, in stato di anestesia, torneremo a essere quella “terra di morti, abitata da un pulviscolo umano”, che Montaigne aveva descritto tre secoli orsono. O forse no, rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giuochi di potere e d’interesse. L’Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti-burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria».
Lionello Leoni
Caro Leoni ,
Queste parole sono la fine del poscritto con cui Montanelli, nel 1997, concluse personalmente l’ultimo volume scritto insieme a Mario Cervi («L’Italia dell’Ulivo») della sua Storia d’Italia, iniziata più di trent’anni prima. Quando partecipai alla presentazione del libro, insieme agli autori, in un’aula dell’Università Cattolica, quel poscritto finì per dominare la discussione e rendere ogni altra riflessione pressoché irrilevante. Come parlare di un’opera interessante, scritta per creare negli italiani il sentimento della loro lunga esistenza nel tempo della storia, quando il suo principale autore non esitava a demolire l’oggetto dei suoi studi scavando un invalicabile fossato tra brillante passato e il desolante presente? Montanelli era anzitutto giornalista, vale a dire membro di un gruppo professionale che deve raccontare, spiegare, analizzare, separare il falso dal vero. Non deve essere un missionario e deve evitare qualsiasi partito preso ideologico. Ma in ultima analisi il suo lavoro non avrebbe senso se non contenesse una conclusione, un giudizio, una scelta. È possibile offrire scelte ai cittadini di un Paese senza futuro, ormai protagonisti di un’operazione fallita?
Credo che all’origine di quel commiato vi fossero almeno due motivi. In primo luogo si era accorto che i volumi della sua storia, a mano a mano che i due autori si avvicinavano all’attualità, stavano divenendo cronaca, prevalentemente nera e giudiziaria. Mancava, inevitabilmente, quello sguardo retrospettivo che consente di setacciare i fatti, di eliminare la zavorra, di meglio pesare le cause e gli effetti. Continuare indefinitamente su quella strada avrebbe finito per svalutare il grande lavoro fatto sino a quel momento. Occorreva quindi abbassare il sipario. Ma a Montanelli serviva, per mettere fine allo spettacolo, un monologo finale, capace di scuotere il pubblico e strappare un ultimo applauso. Il poscritto, se considerato da questo punto di vista, fu uno straordinario pezzo di bravura letteraria e giornalistica.
Il secondo motivo fu strettamente umano. Montanelli era troppo intelligente per essere volgarmente e ciecamente nazionalista. Ma era stato fortemente «nazionale», aveva molto amato l’Italia, aveva investito le sue speranze nel futuro del Paese. Guardandosi alle spalle, verso la fine della sua vita, si era convinto che i suoi investimenti, dal fascismo all’antifascismo, dalla guerra alla Resistenza, dalla monarchia alla repubblica, erano falliti. E lo disse con rabbia.
Ancora una osservazione, caro Leoni. Montanelli, per fortuna, non fu sempre rigidamente coerente. Dopo avere sfogato la sua collera continuò a scrivere per il Corriere articoli che non avevano perduto il loro vecchio smalto.
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