Sempre interessanti e non banali gli interventi di Michele Ainis, specie in materia costituzionale e istituzionale. Ultimamente, per ovvi motivi, si sta concentrando sulla legge elettorale, e lo fa con sano realismo. Personalmente, non condivido tutte le considerazioni del bravo professore. Per esempio non mi fanno impazzire le questioni di "parità di genere" (leggi "quote rosa"), e sullo sbarramento abbassato al 3% mi pare si sia elargito troppo alle pulci con la tosse forte. Concordo che l' 8 fosse esagerato, ma il 5% era un punto di caduta giusto e dignitoso. Già il 4% è poco, ma si poteva accettare. Il 3 è fatto su misura per Alfano, Vendola e gente così. Non buono.
Giusto osservare che il premio di maggioranza al 35% era uno scandalo, così come il 37. Il 40% è veramente il minimo pretendibile per salvaguardare il principio di rappresentanza che vale almeno quanto quello di governabilità (se non di più, visto che le alleanze in politica non sono per forza "inciuci", come il patto del Nazareno, caro Renzino, mi sembra stia lì a dimostrare....anzi, se sono più trasparenti, perché fatte in Parlamento e non nelle sedi dei partiti, per la democrazia è anche meglio...). Il 40% è soglia decente, però c'è il problema dell'astensione. Quando supera il 30%, come sta accadendo ultimamente, e addirittura va oltre ( in alcune elezioni regionali e comunali si è arrivati al 50% !!), alla fine il 55% dei seggi finisce in mano a chi detiene solo il voto di un quarto se non di un quinto degli elettori : decisamente troppo pochi !!
Convengo con l'editorialista che si tratta sempre di giungere a dei compromessi, bisogna vedere il livello degli stessi. Quello dell'Italicum lo definirei medio basso.
I padroni
del voto
di tutti
di Michele Ainis
I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’ Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali (intervista al Messaggero , 25 aprile 2012). Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi.
E a noi popolo votante, quanto ci compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti, mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado. Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per 5 anni torna schiavo. Sbagliava: non siamo del tutto liberi nemmeno in quell’unica giornata.
Però c’è prigione e prigione. La più buia era il Porcellum : premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto.
Di quanto si sono poi allargate le sbarre della cella? Di un bel po’, diciamolo; specie se mettiamo a confronto l’ultima versione dell’ Italicum con il suo primo stampo. Per farlo, basta puntare gli occhi
su una lettera dell’alfabeto: la «P».
Premio, pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita dei partiti.
E dunque, il premio di maggioranza. In origine scattava con il 35% dei consensi, poi al 37%, ora al 40%. Meglio così, la forzatura suona meno forzata. Quanto alla soglia di sbarramento per i piccoli partiti, l’8% è diventato il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi pure sulle quote rosa: la Camera aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a 10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di salvaguardia rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che mancava nell’accordo originario.
Si poteva fare meglio? Certo, ma anche peggio. Tuttavia c’è un’altra «P» da scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare la «P» del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se stesso.
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