domenica 25 gennaio 2015

LA PERSISTENTE CULTURA DEL CAMPARE A DEBITO



In una domenica piatta, in attesa della settimana prossima con l'inizio delle votazione per il nuovo presidente della Repubblica, propongo l'ineccepibile contributo di Giovanni Belardelli nella pagina delle Opinioni e Idee del Corriere, circa il logoro ma persistente privilegio della classe dei dipendenti pubblici.
Nell'epoca ormai affermata della globalizzazione e del lavoro precario, ché nessuna grande impresa è più in grado di sottrarsi alle leggi della produzione, persiste l'isola dei "beati", quella degli impiegati dello Stato ed enti amministrativi. Per risolvere il problema della carenza di personale in alcune sedi giudiziarie, il Ministro Madia ha osato pensare al trasferimento dei dipendenti delle province, destinate a chiudere. Sia mai !! Spostare un lavoratore dalla sua sede originaria ???
Scomodando lui e NON assumendo qualcun altro ??
Nel sentire questo berciare dei soliti sindacati oltreché degli interessati, verrebbe da pensare che o noi o loro viviamo sulla luna...
Eppure questo ancora è, e del resto sono ancora numerose le generazioni di quelli cresciuti nell'Italia dove per assumere e garantire diritti - privilegi slegati da ogni realtà di sostenibilità economica, bastava contrarre debiti infiniti. 


L’Italia del lavoro senza posto fisso
Giovanni Belardelli 

 
L’intenzione del ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia di trasferire negli uffici giudiziari carenti di personale oltre mille dipendenti delle Province ha suscitato l’immediata protesta dei sindacati. Al di là degli aspetti particolari della vicenda e degli sviluppi che potrà assumere (i lavoratori in esubero delle Province ammontano a 20 mila) il progetto, se davvero passasse dall’annuncio via twitter del ministro all’attuazione, implicherebbe un cambiamento di fondo rispetto al regime speciale del quale godono di fatto in Italia i dipendenti pubblici. Segnerebbe un passo verso la fine di quella sorta di moderno feudalesimo che lega il lavoratore pubblico al «suo» posto così come nel medioevo il contadino era vincolato alla sua terra. Con la rilevante differenza, ovviamente, che qualche secolo fa si trattava di una servitù (la servitù della gleba), oggi di un diritto che assume spesso i caratteri del privilegio se paragonato alla condizione del dipendente privato.
Per decenni molte decisioni nella Pubblica amministrazione sono state guidate più che dal perseguimento dell’interesse dei cittadini, dall’intenzione di conservare o incrementare i posti di lavoro dei dipendenti. Come nel caso dell’introduzione delle due maestre nelle elementari, dovuta appunto — nonostante le giustificazioni pedagogico-sindacali che pure vennero prodotte — alla necessità di garantire l’impiego. Si tratta peraltro di una storia non nuova: un secolo fa Luigi Einaudi lamentava il «continuo rigonfiamento degli organici del pubblico impiego per motivi clientelari e su pressione dell’apparato burocratico». Del resto, dovrebbe essere evidente che il nostro mondo del lavoro è da tempo spaccato in due. Da una parte c’è l’Italia del lavoro, quella soggetta agli alti e bassi della congiuntura economica, in cui il rapporto di lavoro — Jobs act o meno — non è mai assicurato per sempre, come migliaia di italiani e italiane stanno drammaticamente sperimentando in questi anni. Dall’altra c’è l’Italia del posto: chi ne fa parte non solo ha goduto fin qui della certezza pressoché assoluta di conservare lo stipendio indipendentemente dall’andamento del Pil, ma anche di regole e condizioni di impiego particolari (come si ricorderà, fino ad alcuni anni addietro l’orario di molti lavoratori pubblici terminava alle 14).
Questa affollata Italia del posto (vi appartengono oltre 3 milioni di pubblici dipendenti, nonché i lavoratori di aziende che sono o si considerano nei fatti pubbliche, come la Rai) non soltanto si è sviluppata quantitativamente negli anni dell’assistenzialismo democristiano (democristiano in teoria, perché nei fatti aveva l’appoggio dell’opposizione comunista), ma ha anche plasmato la cultura profonda del Paese. Un Paese che si è a lungo illuso si potesse campare a debito, elargendo, se non a tutti a molti, risorse che non si avevano. 

Un giorno o l’altro la sinistra italiana — i suoi politici e sindacalisti, ma anche i suoi maîtres à penser che tanto parlavano di diritti e giustizia sociale — dovrà riflettere su quanto l’aver contribuito all’esistenza di queste due Italie abbia ferito il principio di eguaglianza, cioè la principale ragione storica dell’esistenza di una sinistra.
Oggi la lunga crisi in cui si dibatte il Paese ha reso non solo economicamente insostenibile ogni politica di rigonfiamento degli organici delle amministrazioni pubbliche, il cui numero anzi si va sensibilmente riducendo per il blocco del turnover . Ha anche reso obsoleti cultura, mentalità, comportamenti che l’assistenzialismo italiano aveva alimentato per anni fino a farli diventare senso comune.
Di fronte alle altissime percentuali di disoccupazione giovanile, di fronte ai tanti che possono aspirare — se sono fortunati — soltanto a un lavoro precario, la vecchia difesa da parte del lavoratore pubblico non genericamente del posto di lavoro, ma di quel preciso lavoro in quel preciso luogo, diventa ormai, la parola non sembri esagerata, anche eticamente insostenibile.

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