giovedì 29 gennaio 2015

UN'EUROPA PIU' "PICCOLA" SAREBBE MEGLIO ?

IN BLU I PAESI DELL'EUROZONA


Quasi a continuare le riflessioni di ieri di Michele Salvati sul futuro di un'Unione Europea che così com'è non è pensabile che regga ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2015/01/dopo-la-grecia-uneuropa-da-ripensare-e.html ), il Corriere oggi pubblica il contributo di Enzo Moavero Milanesi, che addirittura immagina uno scioglimento dell'attuale compagine, arrivata al numero di ben 28 Stati di cui 19 facenti parte della zona Euro, per la nascita di una federazione meno vasta ma più coerente e coesa negli obiettivi, non solo commerciali ma politici e fiscali, con una visione unitaria anche in materia internazionale. 
L'estensione del "Club" non sta portando bene, tutti ci vogliono entrare pensando di trarre qualche vantaggio, rivendicando però le prerogative nazionali quando dalle istituzioni europee giungono normative e regole indigeste. 
Forse più piccola viene meglio.



L'Europa condannata ai piccoli passi
non ci convince più



In Europa, pensieri e parole, fino a poco tempo fa presenti solo in circuiti di discussione piuttosto teorici, iniziano a emergere nelle riflessioni delle persone vicine a chi ha responsabilità politiche e di governo. Intendiamoci: per ora siamo agli abbozzi di ragionamenti, ma una certa novità, da non sottovalutare, sta nelle tendenziali conclusioni.
L’idea di partenza è (quasi) scontata: l’Unione europea, così come si è evoluta nei 65 anni dalla creazione della prima Comunità del carbone e dell’acciaio, non soddisfa. Tanti cittadini non l’amano: faticano a comprenderne i meccanismi istituzionali, le imputano invasività ed eccessiva burocrazia. Il consenso storico all’integrazione europea si fondava sulla pace fra le nazioni aderenti e sull’aumento del benessere economico. Oggi, la crisi economica globale ha incrinato quest’ultimo, mentre la prima è data per acquisita. Gli slogan anti-Ue pagano nei risultati elettorali.
L’Unione non piace neppure a chi la conosce bene e ne vive l’attività. Gli europeisti criticano la mancata evoluzione federale. Si lamenta la complessità, talvolta l’assurdità delle sue normative. Chi beneficia dei suoi finanziamenti protesta perché diminuiscono o sono difficili da ottenere. Gli esperti congetturano sulle «geometrie variabili», che permettono ad alcuni Stati di non aderire alla libera circolazione delle persone (il «sistema Schengen»), alla piena applicabilità della solenne Carta dei diritti fondamentali, alla moneta unica. Dunque, bisognerebbe cambiare l’Unione europea, ma al riguardo, le divisioni sono profonde.
La globalizzazione e la crisi economica hanno contrapposto i paesi Ue, evidenziandone divergenze e carenze. Da una parte, i paladini del rispetto delle regole, rafforzate di comune accordo quando tutto crollava, chiedono ai partner conti pubblici sani e riforme strutturali, per modernizzare il sistema e ottenere una crescita economica duratura. Dall’altra parte, chi pensa che occorra più spesa pubblica per alleviare il disagio sociale e stimolare l’economia, la sollecita all’Europa e vuole usare le risorse nazionali anche aumentando deficit e debito pubblico. Per ora, entrambe i gruppi continuano a confrontarsi nel quadro istituzionale dell’Unione.
L’intrinseca duttilità delle regole e l’allenamento a trovare soluzioni hanno garantito un certo numero di risultati, ma i problemi di fondo restano. Nei due campi, sale l’insofferenza dei cittadini dei diversi Stati, tutti convinti di avere ragione e determinati a difendere i rispettivi interessi. Governi e opposizioni, ben consci della posta elettorale, agiscono di conseguenza. Nell’Unione, ogni anno ci sono elezioni in qualche Paese, facendo prevalere l’ottica nazionalista su quella europea. La capacità di escogitare accomodamenti è al limite (e, adesso, lo vedremo con la Grecia).
La domanda che circola è per quanto tempo simili visioni divergenti saranno conciliabili: non tanto nelle dichiarazioni d’intenti, ma nelle decisioni politiche concrete. Dalla risposta dipende l’avvenire dell’Europa. Molti pensano che le linee d’azione distillate nelle consuete sedi Ue e gli elaborati compromessi non bastino più e che, anzi, alienino il favore dei cittadini. Si evocano opzioni più nette.
Una modifica dei Trattati sarebbe la via maestra sul piano istituzionale, ma richiede l’unanimità di governi e parlamenti, nonché qualche referendum. L’esperienza passata mostra che conseguire il consenso indispensabile è sempre più arduo. Ai governanti servirebbero coraggio politico, saldi ideali e lungimiranza, per ridare la perduta fiducia europeista ai cittadini e convincere i partner a un effettivo salto di qualità. Quanti di questi talenti vediamo in giro?
L’Europa è, allora, condannata ai «piccoli passi» e alle sue ricorrenti diatribe? Forse no, dicono alcuni, se si prendesse atto dell’impossibilità di restare tutti insieme. L’attuale Unione, erede delle passate Comunità europee, non è indissolubile. Se ne potrebbe immaginare una nuova, fra gli Stati che condividono la medesima visione politica ed economica, che desiderano una moneta unica stabile e severi vincoli di bilancio, che hanno lo stesso approccio nelle relazioni con il resto del mondo, sulle migrazioni e il terrorismo internazionale. La nuova entità sarebbe in grado di osare un esplicito programma federale, subordinandolo all’approvazione dei popoli coinvolti. All’occorrenza, potrebbe associare altri Paesi europei in uno spazio economico di libera circolazione per merci, servizi e investimenti, con un trattamento ad hoc per le persone.
In passato, quando simili idee venivano evocate, gli italiani si vedevano sempre fra i pionieri. Oggi non è certo che la loro maggioranza desidererebbe un’integrazione europea più profonda. Inoltre, dobbiamo inevitabilmente chiederci se gli altri possibili partner ci vorrebbero. Vale la pena di riflettere alle risposte, senza indulgere nell’illusione che a una siffatta nuova Unione aderiscano solo quei Paesi che, di solito, chiamiamo rigoristi.

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