Dieci milioni di abitanti che ne condizionano oltre trecento.
Forse c'è qualcosa che non va, che gli ideatori della Casa Europea non avevano bene immaginato...
Buona Lettura
L’Europa ostaggio
delle urne di atene
La grande Europa della moneta unica attende col fiato sospeso le decisioni politiche che prenderà, a fine gennaio, la piccola Grecia, temendo — ancor più dopo il crollo delle Borse di ieri — che una vittoria elettorale di Alexis Tsipras riporti l’euro alla tempesta finanziaria del 2011. Lorenzo Bini Smaghi ha rilevato su queste colonne che per la sola Italia il costo di una ristrutturazione del debito ellenico potrebbe arrivare a venti miliardi. E le rivelazioni di Der Spiegel — pur con la precisazione giunta due giorni fa dal governo tedesco — hanno fatto riaffiorare i dubbi sulla reale volontà di Berlino di mantenere a tutti i costi Atene nell’euro, così riproponendo la dura contrapposizione tra Stati creditori e Stati debitori.
Frattanto, quale che sia il giudizio sulle responsabilità e sulle possibili soluzioni, una cosa è certa: intorno a questioni di tanta rilevanza, oltre 300 milioni di europei dipendono oggi dalle scelte di 10 milioni di greci. Il che pone il problema del rapporto tra sovranità e democrazia nel Vecchio Continente: fino a che punto, passo dopo passo, esso si è andato deteriorando? Dopotutto, sarebbe come se in Italia i risultati elettorali della Valle d’Aosta avessero il potere di condizionare la scelta del nuovo governo o perfino il nostro assetto costituzionale, magari a dispetto della volontà del resto del Paese. Ne saremmo sconcertati.
Si dirà che, nelle più gravi crisi geopolitiche dell’ultimo secolo, i piccoli Paesi hanno spesso giocato un ruolo determinante. È successo con la Serbia del 1914, con i territori centroeuropei a maggioranza tedesca nel 1938, con Cuba nel 1962, e via dicendo. Succede con le inesauribili tensioni su scala globale che da oltre mezzo secolo si sono concentrate attorno alle poche decine di migliaia di chilometri quadrati dell’ enclave israelo-palestinese. Una contraddizione di scala che rimane simboleggiata dal dilemma (pacifista e brutale al tempo stesso) di Marcel Déat: è possibile morire per Danzica?
In molte di quelle circostanze, tuttavia, erano stati i padroni del mondo — gli imperi continentali europei, la Germania nazista, l’Urss, gli Usa, le dittature petrolifere — a utilizzare, manipolare o addirittura inventare le crisi regionali, piegandole alle proprie strategie. I «piccoli» avevano potuto costituire la miccia di conflitti globali, ma era toccato ai «grandi» decidere di dar fuoco alle polveri. I rapporti di forza apparivano comunque rispettati, come vuole il pragmatismo delle relazioni internazionali.
Quel che accade oggi è tutt’altra cosa. La Grecia non rappresenta lo strumento, né è la vittima delle brame di qualche grande potenza. Al contrario, è la volontà democraticamente espressa dai suoi elettori a costituire una potenziale minaccia per la stabilità dell’unione monetaria. E sono perciò le prospettive economiche e sociali di tedeschi, francesi, italiani, spagnoli, eccetera che potrebbero essere modificate dalle autonome scelte di un Paese strutturalmente e politicamente marginale. L’orientamento di una piccola minoranza demografica rischia insomma di avere vistose conseguenze sull’intero continente.
Non è questione di poco conto. Quali che siano i torti e le ragioni della crisi annunciata, la sproporzione tra la debole Grecia e il resto del continente (ivi compresa la robusta area centro-settentrionale) illustra come meglio non si potrebbe l’intrecciarsi storicamente inusuale dei destini dei popoli europei, mettendo in forse la stessa logica sulla quale si fonda la democrazia rappresentativa e confermando le numerose contraddizioni esistenti fra le regole dell’Unione e le prerogative degli Stati nazionali che ne fanno parte. Si tratta di nodi sui quali, evidentemente, i padri fondatori dell’euro non hanno mostrato, a suo tempo, grande preveggenza .
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