mercoledì 18 febbraio 2015

LA TITUBANZA DELL'OCCIDENTE NON FA BENE ALLA PACE

 

Non so se gli ex ambasciatori, Sergio Romano e Roberto Toscano, oggi valenti editorialisti del Corsera e de La Stampa, siano soddisfatti della tregua di Minsk, in vigore da domenica e da subito balbettante e precaria.
Immagino di sì, che per loro la diplomazia è "l'unica cosa". 
A dire la verità, come ben ci ricorda Nial Ferguson, che apprendo essere professore di storia ad Harvard, a Minsk era stato raggiunto in precedenza un altro accordo, completamente ignorato poi dai separatisti russi, con l'evidente benedizione di Putin.
Non è pessimismo, piuttosto realismo (lo stesso che pure impregna sempre le considerazioni dei due politologi esteri citati), ipotizzare che questa seconda intesa faccia la fine della prima.
E questo semplicemente perché i separatisti filorussi, armati e aiutati, anche con "volontari" dell'esercito russo, si mostrano più forti dell'esercito di Kiev. Forse, e sottolineo forse, perché è da verificare se la debolezza dell'esercito ucraino, manifestatasi fin qui, dipenda solo da un problema di armamenti, la diplomazia diverrebbe più efficace se gli USA si decidessero a rifornire di armi le truppe di Peroshenko. Romano e Toscano sono anche degli studiosi, non possono sapere che Roma Antica aveva come dogma diplomatico il principio per il quale, se vuoi la pace devi essere pronto a fare la guerra. Non c'è vero compromesso se una delle due parti è convinta di essere più forte, ché al tavole delle trattative non sono i principi alti e nobili a farla da padroni. 
A mio avviso, il problema per l'occidente è capire quale sia veramente il punto di arrivo di Putin. Dove realmente è disposto a fermarsi. E decidere se glielo si vuole concedere o no. Se è no, comportarsi di conseguenza. 



La politica titubante dell’Occidente
fa male all’Ucraina

 

Niente di meglio di un accordo di pace, agli occhi del mondo. E il fascino dell’accordo siglato giovedì per il cessate il fuoco in Ucraina sta nel fatto che si presta a due letture ugualmente interessanti. O è un «Camp David», momento sublime di riconciliazione tra nemici giurati, o un «trattato di Monaco», un passo indietro nel tempo, quando si preferì blandire i dittatori, anziché combatterli. Le notizie, tuttavia, sono deludenti. L’accordo di Minsk non ricalca nessuno dei due. Russia e Ucraina non sono sul punto di firmare una pace eterna, né l’Ucraina si appresta a essere smembrata dal presidente russo Vladimir Putin, come toccò alla Cecoslovacchia per mano di Hitler con la connivenza di Francia e Inghilterra.
Bando alle ipotesi fantasiose: l’accordo di Minsk non comporta neppure un’intesa formale, secondo alcuni degli addetti ai lavori, trattandosi piuttosto di una lista di misure da attuare per arrivare (ma forse anche no) a una tregua nell’Est dell’Ucraina. Pur essendo presenti, né la cancelliera tedesca né i presidenti di Francia, Russia e Ucraina hanno firmato alcunché. Il documento è stato siglato dai rappresentanti del «gruppo di contatto», che comprende l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa, i ribelli ucraini e i filorussi secessionisti che si fanno la guerra nell’Est del Paese.
Tra le cose da fare, troviamo la creazione di una zona demilitarizzata nell’Ucraina orientale; lo scambio di tutti i prigionieri; l’amnistia per i criminali di guerra; la ripresa dei rapporti economici tra Kiev e la regione contestata del Donbass; e un articolato processo per favorire l’autonomia politica del Donbass.
Per lo stratega in poltrona, tutto questo sembra abbastanza equilibrato. Ma scendiamo nei particolari. 

Il primo accordo di Minsk del 2014 stabiliva che l’Ucraina avrebbe ripreso il pieno controllo dei suoi confini nazionali, e da subito — tranne quelli attorno alla Crimea, regione che la Russia si è annessa l’anno scorso. Il nuovo documento, invece, dilaziona il trasferimento del controllo dei confini nel Donbass fino alla fine del 2015. I separatisti avranno poi il controllo di 500 chilometri quadrati di territorio ucraino non contemplato nel precedente accordo; e tutti gli emendamenti costituzionali imposti dall’accordo dovranno essere approvati dai separatisti.
In breve, i dettagli diabolici contenuti in questo documento lo rendono altamente vantaggioso per i russi e i loro alleati. E questo non deve sorprenderci, poiché l’Ucraina è nella classica posizione di debolezza. «Noi siamo certi, di fronte a voi… che nelle considerazioni umane il diritto è riconosciuto in seguito a una uguale necessità per le due parti, mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede». Con tale freddo e minaccioso distacco parlavano gli ateniesi agli abitanti di Melo ne La guerra del Peloponneso di Tucidide. È questo, in essenza, l’atteggiamento della Russia.
Il presidente ucraino Petro Poroshenko sta facendo il possibile. Se avesse respinto le condizioni offerte a Minsk, le truppe ucraine presenti a Debaltsevo avrebbero rischiato il massacro. Gli europei l’avrebbero accusato di intransigenza, ed è lecito sospettare che il Fondo monetario internazionale, che giovedì ha annunciato altri finanziamenti all’Ucraina per 17,5 miliardi di dollari, si sarebbe rivelato meno collaborativo. Il presidente Poroshenko è stato messo con le spalle al muro: niente accordo, niente soldi del Fmi. Ma sa benissimo che, a parte l’assegno, non è riuscito ad assicurarsi altro che una manifestazione di buona volontà diplomatica. Perché non esiste alcun impegno tassativo che obblighi i russi a rispettare questa tregua più di quanto non abbiano fatto con la precedente. Per afferrarne il motivo, occorre capire quali sono gli obiettivi di Putin: non nuove annessioni di territorio ucraino, ma la creazione di una zona di «conflitto congelato» che abbraccia diverse regioni semi-autonome dove gli accordi di Kiev non hanno alcun peso.
La peggiore minaccia finora è stata quella del Congresso americano, dove si è vista un’impennata di voti (non solo di falchi repubblicani) a favore dell’invio di armi in Ucraina. L’altra minaccia che pesa su Putin è l’indignazione tedesca davanti al mancato rispetto dell’ultimo accordo di Minsk. La reazione del presidente russo era stata quella di ricorrere alla diplomazia per creare una spaccatura tra Europa e Usa. Per quanto irritata, la cancelliera Merkel afferma di «non riuscire a immaginare uno scenario in cui l’invio di armi all’esercito ucraino possa spaventare Putin». Con l’invito rivolto alla cancelliera e al presidente francese Hollande a recarsi a Mosca e poi nel nuovo incontro di Minsk, Putin ha saputo sfruttare al massimo questa divisione. Ha ridotto significativamente il rischio che gli Stati Uniti possano inviare armi in Ucraina, e al contempo ha dato credibilità alla nuova dottrina di Obama, definita di «pazienza strategica». In realtà questa strategia (conosciuta anche come «titubanza») è la stessa che ha fatto sprofondare nel caos sia la Siria sia l’Iraq, e l’Ucraina orientale si avvia sulla stessa strada. Purtroppo, molti in Occidente si lasceranno cullare dalla fiaba della Pace di Minsk, sorvolando sulla tragica situazione sul campo, così come hanno sorvolato sugli effettivi termini e condizioni del trattato. 

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