L'amico Cataldo mi ha preziosamente segnalato questa intervista a Agnès Verdier-Molinié , autrice di un saggio coraggioso, in quanto critico dello statalismo francese, da sempre imperante nel suo paese, comparsa sul supplemento domenicale del Corriere.
Nell'indicarmelo, Cataldo conferma la sua natura Liberal, cosa diversa dal liberalismo, ma anche dal socialismo più antico e tradizionale.
Insomma, potrei dire un democratico all'americana, o un laburista alla Blair...entrambe opzioni migliori della cattiva imitazione renziana...
In Francia politici e governanti di turno sanno bene, scrive la Verdier-Molinié, cosa si dovrebbe fare per guarire il malato (le cui condizioni sono peggiori delle nostre, solo che il paese è di base più ricco e più organizzato dell'Italia), ma alle resistenze della popolazione si bloccano. Vi ricorda qualcosa ?
STATO LEGGERISSIMO
O ANDIAMO A SBATTERE
Agnès Verdier-Molinié è l'anti Piketty : Pubblico e privato si devono mescolare
Il saggio del momento in Francia è un
attacco senza pietà contro l’invadenza e l’inefficienza dello Stato
forte, della sicurezza sociale, dei funzionari pubblici, delle 35 ore,
del Quai d’Orsay, della scuola. Se Thomas Piketty ha affrontato da
sinistra e con approccio macroeconomico le ingiustizie del capitalismo,
Agnès Verdier-Molinié usa un’impostazione liberale per demolire i
simboli stessi della nazione, quelli che talvolta gli economisti
anglosassoni amano deridere, ma ai quali i francesi sono molto
affezionati. Eppure è la trentaseienne francese direttrice del think tank
Ifrap (che analizza la performance dello Stato e dell’amministrazione
pubblica) a rivelare quel che le dicono, in privato, ministri,
sottosegretari, dirigenti d’azienda, leader dell’opposizione: «On va
dans le mur…». Cioè «andiamo a sbattere», frase di indiscutibile
chiarezza che infatti dà il titolo al libro.
Perché la Francia va a sbattere?
«Perché raggiungerà presto il 60% di spesa pubblica rispetto al Pil e supererà la soglia del 100% del debito, perché è schiacciata da un sistema di 360 tasse e contributi, perché il codice del lavoro è enorme e fuori controllo e pesa ormai un chilo e mezzo quando nel 1985 si fermava a 500 grammi, perché lo Stato è ovunque, ma inefficace».
Lei se la prende con i 36 mila Comuni, i 5,3 milioni di funzionari pubblici, i 191 ambasciatori che si litigano 163 ambasciate, i balzelli come quello sulle navette turistiche per i parchi nazionali… Il suo libro ricorda certe situazioni dell’Italia, ed è anche amaramente divertente.
«L’idea era scrivere qualcosa alla portata di tutti, uscendo dal gergo molto tecnico delle politiche pubbliche. E spiegare perché la Francia, che pure ha molti atout, è ancora ferma, mentre gli altri Paesi dopo la crisi stanno ripartendo. Tutti i politici, di destra e di sinistra, sanno quali sono i problemi, ma non osano affrontarli».
A parziale giustificazione dei politici, va detto che chi ci ha provato, come Alain Juppé nel 1995 (riforma delle pensioni e sicurezza sociale) o Dominique de Villepin nel 2006 (contratto di primo impiego) si sono presi scioperi e manifestazioni memorabili e hanno dovuto rinunciare. La colpa è dei politici poco coraggiosi o dei francesi che delle vere riforme non ne vogliono sapere?
«Io credo che i cittadini siano pronti a cambiare, ma bisogna dare loro spiegazioni per tempo, non fargli piovere in testa provvedimenti mai annunciati. In campagna elettorale i politici dicono cose molto diverse. Guardi Hollande, che nel 2012 prometteva di riportare l’età della pensione a 60 anni (Sarkozy l’aveva innalzata a 62), pur sapendo che era impossibile. I francesi si ribellano quando si sentono ingannati. Ma adesso sarebbero pronti per le riforme».
Il libro sembra ispirarsi più ai «tea party» americani che alla tradizione francese. Lei chiede uno Stato leggero, quando la Francia vive del mito dello Stato forte e centralista.
«Ma no, i tea party non mi hanno ispirata, prima di tutto perché da noi la situazione non è paragonabile a quella americana, peraltro lo Stato da noi è infinitamente più invadente. A guidarmi sono stati solo anni di ricerche e di dossier della fondazione che dirigo, l’Ifrap. Non ho un approccio ideologico, sono le cifre a parlare, e infatti nessuno le contesta. Come tutti gli europei, i francesi sono affezionati al servizio pubblico, ma ormai è un sistema che si autoalimenta e passa davanti ad altre priorità, come la creazione di posti di lavoro e nuove aziende. Abbiamo provato tutto, dall’aumento delle tasse agli emploi d’avenir, che sono posti di lavoro assistititi nei servizi pubblici; la sola cosa che non abbiamo provato è diminuire la spesa pubblica e riorganizzare il Fisco. I politici francesi annunciano da anni riforme, e poi ci accorgiamo che non sono sufficienti. La politica dei piccoli passi sfianca il Paese, e non serve».
Che cosa pensa della legge Macron, approvata tra mille polemiche per volere del ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, socialista ma accusato all’interno del partito di essere troppo liberale?
«Malgrado tutto, siamo ancora ai piccoli passi. Macron avrebbe potuto essere più ambizioso e permettere l’apertura domenicale dei negozi nelle grandi città, affrontare la riforma del codice del lavoro, aiutare gli imprenditori che non vogliono assumere più di 9 o 49 dipendenti, a seconda delle dimensioni dell’azienda, per non essere schiacciati dagli oneri sociali. La legge Macron va nella direzione giusta, ma voleva liberalizzare e colpire le posizioni di rendita, e se l’è presa solo con notai e farmacisti, quando la vera rendita, in Francia, è quella dei funzionari pubblici».
Pubblico contro privato?
«In Francia parliamo molto di égalité, ma non c’è una vera equità. A parità di anni di contributi, chi ha lavorato nel privato avrà una pensione inferiore a chi ha lavorato nel pubblico, è questo ormai è insopportabile. Ci sono due Paesi, quello privato e quello pubblico, che si ignorano e non si parlano, mentre il futuro è di chi ha carriere miste tra pubblico e privato, come succede nei Paesi scandinavi. Non sei obbligato a essere professore tutta la vita. Abbiamo 5,4 milioni di dipendenti pubblici sparsi ovunque, dagli ospedali agli enti locali, sicuri di avere il posto fisso a vita. Come si fa a chiedere flessibilità, se una parte consistente dei cittadini comunque non ne sarà toccata?».
Il suo libro ha successo e fa molto discutere, ma c’è un partito che mostra più interesse di altri alle sue tesi?
«Mi danno ragione politici di destra, da Alain Juppé a Bruno Le Maire, e di sinistra come Thierry Mandon, che nel governo è incaricato della riforma dello Stato e della semplificazione. Ma non è più questione di destra o sinistra, la distinzione è tra riformatori o conservatori all’interno dello stesso campo. I riformatori hanno capito che non si può continuare così: nella scuola, per esempio, non si capisce mai se a occuparsene è lo Stato centrale o gli enti locali. Non abbiamo mai speso tanto per la scuola, e i risultati sono sempre peggiori».
Che cosa pensa di quel che sta facendo Matteo Renzi in Italia? Sono piccoli passi come in Francia o riforme sostanziali?
«Vedremo presto se sarà riuscito a togliere i blocchi che, in Italia come in Francia, frenano le assunzioni. Renzi ha energia, voglia di fare, vuole cambiare. Penso alle Province, al nuovo Senato: è veramente dura sopprimere dei mandati elettivi».
Nonostante tutto lei è ottimista per la Francia, il suo libro non appartiene al genere declinista. Come mai?
«Perché possiamo salvarci, se agiamo subito. Le cose da fare sono note a tutti, adesso è il momento di procedere. I tassi di interesse così bassi non dureranno a lungo, bisogna approfittarne. Le reazioni al mio libro sono incoraggianti. I politici non mi sono ostili perché in fondo, dall’esterno, li aiuto, dimostro ai cittadini che certe decisioni sono ineludibili».
E i funzionari pubblici?
«Molti di loro mi hanno aiutata, fornendomi le informazioni e le cifre che non riuscivo a ottenere per via ufficiale. Sanno che dalle riforme profonde dipende la salvezza di tutti, anche la loro».
Stefano Montefiori
Perché la Francia va a sbattere?
«Perché raggiungerà presto il 60% di spesa pubblica rispetto al Pil e supererà la soglia del 100% del debito, perché è schiacciata da un sistema di 360 tasse e contributi, perché il codice del lavoro è enorme e fuori controllo e pesa ormai un chilo e mezzo quando nel 1985 si fermava a 500 grammi, perché lo Stato è ovunque, ma inefficace».
Lei se la prende con i 36 mila Comuni, i 5,3 milioni di funzionari pubblici, i 191 ambasciatori che si litigano 163 ambasciate, i balzelli come quello sulle navette turistiche per i parchi nazionali… Il suo libro ricorda certe situazioni dell’Italia, ed è anche amaramente divertente.
«L’idea era scrivere qualcosa alla portata di tutti, uscendo dal gergo molto tecnico delle politiche pubbliche. E spiegare perché la Francia, che pure ha molti atout, è ancora ferma, mentre gli altri Paesi dopo la crisi stanno ripartendo. Tutti i politici, di destra e di sinistra, sanno quali sono i problemi, ma non osano affrontarli».
A parziale giustificazione dei politici, va detto che chi ci ha provato, come Alain Juppé nel 1995 (riforma delle pensioni e sicurezza sociale) o Dominique de Villepin nel 2006 (contratto di primo impiego) si sono presi scioperi e manifestazioni memorabili e hanno dovuto rinunciare. La colpa è dei politici poco coraggiosi o dei francesi che delle vere riforme non ne vogliono sapere?
«Io credo che i cittadini siano pronti a cambiare, ma bisogna dare loro spiegazioni per tempo, non fargli piovere in testa provvedimenti mai annunciati. In campagna elettorale i politici dicono cose molto diverse. Guardi Hollande, che nel 2012 prometteva di riportare l’età della pensione a 60 anni (Sarkozy l’aveva innalzata a 62), pur sapendo che era impossibile. I francesi si ribellano quando si sentono ingannati. Ma adesso sarebbero pronti per le riforme».
Il libro sembra ispirarsi più ai «tea party» americani che alla tradizione francese. Lei chiede uno Stato leggero, quando la Francia vive del mito dello Stato forte e centralista.
«Ma no, i tea party non mi hanno ispirata, prima di tutto perché da noi la situazione non è paragonabile a quella americana, peraltro lo Stato da noi è infinitamente più invadente. A guidarmi sono stati solo anni di ricerche e di dossier della fondazione che dirigo, l’Ifrap. Non ho un approccio ideologico, sono le cifre a parlare, e infatti nessuno le contesta. Come tutti gli europei, i francesi sono affezionati al servizio pubblico, ma ormai è un sistema che si autoalimenta e passa davanti ad altre priorità, come la creazione di posti di lavoro e nuove aziende. Abbiamo provato tutto, dall’aumento delle tasse agli emploi d’avenir, che sono posti di lavoro assistititi nei servizi pubblici; la sola cosa che non abbiamo provato è diminuire la spesa pubblica e riorganizzare il Fisco. I politici francesi annunciano da anni riforme, e poi ci accorgiamo che non sono sufficienti. La politica dei piccoli passi sfianca il Paese, e non serve».
Che cosa pensa della legge Macron, approvata tra mille polemiche per volere del ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, socialista ma accusato all’interno del partito di essere troppo liberale?
«Malgrado tutto, siamo ancora ai piccoli passi. Macron avrebbe potuto essere più ambizioso e permettere l’apertura domenicale dei negozi nelle grandi città, affrontare la riforma del codice del lavoro, aiutare gli imprenditori che non vogliono assumere più di 9 o 49 dipendenti, a seconda delle dimensioni dell’azienda, per non essere schiacciati dagli oneri sociali. La legge Macron va nella direzione giusta, ma voleva liberalizzare e colpire le posizioni di rendita, e se l’è presa solo con notai e farmacisti, quando la vera rendita, in Francia, è quella dei funzionari pubblici».
Pubblico contro privato?
«In Francia parliamo molto di égalité, ma non c’è una vera equità. A parità di anni di contributi, chi ha lavorato nel privato avrà una pensione inferiore a chi ha lavorato nel pubblico, è questo ormai è insopportabile. Ci sono due Paesi, quello privato e quello pubblico, che si ignorano e non si parlano, mentre il futuro è di chi ha carriere miste tra pubblico e privato, come succede nei Paesi scandinavi. Non sei obbligato a essere professore tutta la vita. Abbiamo 5,4 milioni di dipendenti pubblici sparsi ovunque, dagli ospedali agli enti locali, sicuri di avere il posto fisso a vita. Come si fa a chiedere flessibilità, se una parte consistente dei cittadini comunque non ne sarà toccata?».
Il suo libro ha successo e fa molto discutere, ma c’è un partito che mostra più interesse di altri alle sue tesi?
«Mi danno ragione politici di destra, da Alain Juppé a Bruno Le Maire, e di sinistra come Thierry Mandon, che nel governo è incaricato della riforma dello Stato e della semplificazione. Ma non è più questione di destra o sinistra, la distinzione è tra riformatori o conservatori all’interno dello stesso campo. I riformatori hanno capito che non si può continuare così: nella scuola, per esempio, non si capisce mai se a occuparsene è lo Stato centrale o gli enti locali. Non abbiamo mai speso tanto per la scuola, e i risultati sono sempre peggiori».
Che cosa pensa di quel che sta facendo Matteo Renzi in Italia? Sono piccoli passi come in Francia o riforme sostanziali?
«Vedremo presto se sarà riuscito a togliere i blocchi che, in Italia come in Francia, frenano le assunzioni. Renzi ha energia, voglia di fare, vuole cambiare. Penso alle Province, al nuovo Senato: è veramente dura sopprimere dei mandati elettivi».
Nonostante tutto lei è ottimista per la Francia, il suo libro non appartiene al genere declinista. Come mai?
«Perché possiamo salvarci, se agiamo subito. Le cose da fare sono note a tutti, adesso è il momento di procedere. I tassi di interesse così bassi non dureranno a lungo, bisogna approfittarne. Le reazioni al mio libro sono incoraggianti. I politici non mi sono ostili perché in fondo, dall’esterno, li aiuto, dimostro ai cittadini che certe decisioni sono ineludibili».
E i funzionari pubblici?
«Molti di loro mi hanno aiutata, fornendomi le informazioni e le cifre che non riuscivo a ottenere per via ufficiale. Sanno che dalle riforme profonde dipende la salvezza di tutti, anche la loro».
Stefano Montefiori
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