Personalmente non mi stupisco del chiaro debole di Matteo Renzi per i pubblici ministeri, in particolare quelli più muscolari. Hanno parecchi tratti in comune : arroganza, decisionismo, scrupoli zero, scarso senso della democrazia. E' un amore non del tutto corrisposto, che quando c'è da fare una legge che piace al popolo - come ridurre le ferie ai privilegiati e chiamare anche loro a rispondere dei danni fatti - Renzino non si tira certo indietro, e questo anche se gli costa i malumori e gli anatemi del sindacato dei magistrati.
Sappiamo tutti che se a via Arenula, al Ministero della Giustizia, siede Orlando e non Gratteri lo si deve solo alla prudenza di Napolitano ( "ragazzo mio, non esagerare..."), ma quando l'amore è forte prima o poi la strada la trova, e così il PM di ferro potrebbe finire al ministero dlle infrastrutture dove è stato sloggiato Lupi. ALternativa, altro PM, Cantone, che è stato già messo a presidiare l'Expò.
Insomma, la classe politica e la società civile sembrano incapaci di fornire persone di capacità pubbliche, e quindi restano solo i magistrati. POssibile mai ? E' forse una polizza sulla vita quella che cerca di accendersi sig. presidente del consiglio ?
In attesa di impossibile risposta, mi fa piacere leggere che il prof. Panebianco, uno di quelli favorevoli a Renzi ma cum iuicio - cioè non a prescindere - si è accorto di questa anomalia e la biasima.
Buona Lettura
Magistrati al ministero
e
la politica si arrende
di Angelo Panebianco
Già una volta un magistrato occupò quella poltrona (Antonio Di Pietro all’epoca del governo Prodi, 2006-2008). Non andrà forse così ma l’ipotesi è verosimile. Quando i politici vogliono mettersi al riparo da attacchi giudiziari e vogliono compiacere la piazza giustizialista affidano la poltrona che più scotta a un magistrato, riconoscendo così, anche ufficialmente, la propria debolezza, la subalternità della politica al potere giudiziario.
Nella vicenda Lupi (come ha osservato Antonio Polito sul Corriere di ieri) Renzi ha scelto di sposare gli umori della piazza, esponendosi così all’accusa di opportunismo, di essere uno che usa due pesi e due misure, salvando (politicamente) o condannando a seconda delle sue convenienze. Per evitare ciò, che cosa avrebbe potuto fare? Avrebbe forse potuto contrapporsi alla piazza tirando fuori di tasca la bomba atomica: un decreto legge che ponesse immediatamente fine a un ventennio di diffusione arbitraria di intercettazioni giudiziarie. Altro che il solito «disegno di legge» sulle intercettazioni (ce n’è uno in pista anche ora, l’ennesimo), destinato presumibilmente a fare la fine di tutti quelli che, in questi vent’anni, l’hanno preceduto.
Prendiamo le ventuno democrazie occidentali più consolidate (quelle che sono tali con continuità dalla fine della Seconda guerra mondiale). Quante volte, diciamo negli ultimi dieci anni, plausibilmente, ministri di queste ventuno democrazie hanno fatto telefonate simili a quelle che sono costate il posto a Lupi? Vogliamo essere prudenti? Vogliamo dire «solo» decine e decine di volte? E in quanti casi, simili telefonate, intercettate dall’autorità giudiziaria, sono diventate pubbliche ponendo fine alla carriera del ministro? Ma — dicono quelli che non ne hanno un’idea — il fatto che l’Italia faccia un siffatto uso, pubblico ed extraprocessuale, di intercettazioni giudiziarie è segno che il nostro è il Paese più democratico del mondo. Decidetevi: il nostro è il Paese più democratico o è il più corrotto del mondo? Non si possono sostenere insieme tutte e due le cose. Salvo credere che un alto tasso di corruzione sia un indicatore di elevata democraticità.
In realtà, l’Italia non è né il Paese più democratico né quello più corrotto. Però, ha due particolarità. In primo luogo, possiede un sistema normativo criminogeno, un guazzabuglio di norme che, da un lato, è esso stesso creatore di reati e, dall’altro, non rappresenta un deterrente efficace contro i mariuoli. Cito da Luigi Ferrarella ( Corriere di ieri): «Un codice degli appalti di 1.560 commi (più 1.392 del regolamento di attuazione) modificato in 560 punti in 8 anni» .
Bisognerebbe affrontare il problema in due mosse. Prima mossa: decidere l’abolizione di tutte, nessuna esclusa, le norme suddette. Seconda mossa: riempire il vuoto con pochissime norme che risultino chiarissime, comprensibilissime, anche da parte di persone prive di un’alta istruzione. Forse allora la corruzione (quella vera) potrebbe essere colpita in modo efficiente, forse si potrebbe disporre di un vero deterrente.
Ma non si può fare. Perché? Perché in tal caso l’Italia cesserebbe presto, probabilmente, di figurare nella hit parade dei Paesi più corrotti del mondo, ossia smetterebbe di autopercepirsi come tale, e ciò distruggerebbe carriere (avvocati senza più lavoro, giustizialisti di professione senza più argomenti), e manderebbe in paranoia quegli italiani che si crogiolano nell’idea che il loro Paese sia in cima alla suddetta classifica .
La seconda peculiarità riguarda ovviamente, da vent’anni, l’uso politico (contro indagati e contro non indagati) delle intercettazioni giudiziarie. Pier Luigi Bersani ha ora lamentato tale andazzo e ha ragione. Però, quando era potente, non fece nulla in merito: forse perché allora il sistema serviva soprattutto per colpire Berlusconi e i suoi? Nonostante la prudenza con cui tratta la questione giustizia, il governo Renzi ha già sperimentato l’ostilità dei rappresentanti sindacali della magistratura. Le norme del governo sulla responsabilità civile dei magistrati — questo lo sappiamo tutti — avranno effetti scarsi o nulli. Al contrario, una buona legge sulle intercettazioni cambierebbe tanto nella politica italiana. È la ragione per cui è così difficile metterci le mani .
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