lunedì 27 aprile 2015

PANEBIANCO RICORDA : "NON E' L'AMERICA IL NOSTRO NEMICO"

 

Non solo ero una mosca bianca, io liberale nel liceo Augusto di Roma nella seconda metà degli anni '70 (per quelli che non c'erano o non ricordano, erano gli anni in cui i "gruppettari", i radicali di sinistra insultavano e qualche volta menavano pure i "figgicciotti", cioè i giovani della federazione comunista), ma pure un po' a rischio per il mio filo americanismo. L'anti, era una moda diffusissima, che si estendeva anche alla destra nostalgica (in fondo, erano quelli che avevano vinto la guerra e abbattuto il fascismo...altro che partigiani), e ai pauperisti benpensanti presenti anche nella DC.
Io no. Ero grato agli Stati Uniti per l'apporto determinante alla vittoria contro il nazismo, per il piano Marshall che aveva aiutato, noi come il resto d'Europa, a risollevarci dalla devastazione della guerra, e, last but not least, a vivere liberi rimanendo dalla parte giusta del muro. 
Dopodiché parliamo di una grande potenza, con tutti i cinismi, gli interessi, gli errori e le colpe di una Nazione di importanza planetaria. 
Insomma, non si tratta di santificare, o non criticare. Ma nel farlo, non scordo mai che NON è quello il nemico.
Esattamente quello che perfettamente spiega il Prof. Angelo Panebianco ( di cui plaudo il paio di stilettate ai ridicoli avvisi di garanzia che ogni tanto partono dalle nostra procure in materi come queste) trattando la triste vicenda di Giovanni Lo Porto (e Warren Weinstein).
Buona Lettura

 
Il nemico non è l’America
di Angelo Panebianco

 

 Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, porgendo le scuse alle famiglie, nella sua qualità di comandante in capo delle forze armate, si è assunto la responsabilità per la morte dei due cooperanti Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein. Speriamo che a nessuno, qui da noi, venga in mente di spedirgli un avviso di garanzia. I precedenti non mancano. È il caso, ad esempio, della mirabolante inchiesta giudiziaria degli anni Novanta denominata Cheque to Cheque, a proposito di un supposto traffico d’armi internazionale. Quell’inchiesta, naturalmente, finì come doveva finire, ossia in niente. Ma tenne per mesi e mesi le prime pagine dei giornali anche perché era stata condita e «caricata» con indagini su personalità internazionali varie, dall’allora leader nazionalista russo Zhirinovski all’arcivescovo di Barcellona. Non accadrà anche a Obama (si spera) ma ciò che rende una tale eventualità non del tutto implausibile è il clima che si respira oggi nel nostro Paese. Sembra, ad ascoltare certi commenti, che gli americani siano il «nemico», i veri assassini. Assassini reticenti, per di più: il principale tema in discussione è se Obama sapesse o non sapesse e, nel caso sapesse, perché non l’abbia detto prima. Si perde così di vista l’essenziale. E l’essenziale è che se anche gli americani hanno commesso un errore (e chi non ne commette in guerra?) i nemici, gli assassini, non sono loro: sono coloro che hanno rapito, imprigionato per anni e mai rilasciato Lo Porto e Weinstein.
P erché questa semplice e incontrovertibile verità fatica ad affermarsi? Fondamentalmente, perché la legittimità dell’azione militare occidentale contro i gruppi jihadisti nelle varie parti del mondo è contestata o non accettata da rilevanti settori del Paese. Si guardi a come molti parlano della guerra in Afghanistan. Facendo di tutta un’erba un fascio la mettono insieme all’invasione dell’Iraq. Sarebbe anch’essa, nient’altro che una «guerra di Bush». Dimenticando che se certamente l’Iraq è un caso controverso, che ha fin dall’inizio diviso l’opinione pubblica occidentale, questo non è vero per l’Afghanistan. Gli americani intervennero in Afghanistan a seguito dell’11 settembre 2001 proprio perché lì era stato concepito e organizzato quell’attacco. Se c’è stata una guerra con tutti i crismi della «guerra giusta» (così come è stata codificata dal cristianesimo medievale) questa è stata senz’altro la guerra d’Afghanistan. Ma il fatto che questo aspetto non venga riconosciuto o sia stato dimenticato contribuisce a spiegare la diffidenza e il distacco con cui le azioni americane anche in quella parte del mondo vengono guardate da certi settori dell’opinione pubblica italiana: una diffidenza e un distacco tanto più sgradevoli e fuori luogo se si tiene conto del ruolo attivo che i nostri militari hanno avuto e tuttora hanno in Afghanistan e del tributo di sangue pagato in quella missione da tanti nostri soldati.
Difficoltà a distinguere fra gli americani e i veri nemici, difficoltà ad accettare la piena legittimità delle azioni militari di contrasto ai gruppi jihadisti nei vari luoghi ove si combatte, ci fanno correre, qui e ora, un gravissimo rischio. Il rischio è quello del disarmo morale di fronte a una aggressione jihadista che ha ormai anche noi italiani nel mirino (non avevamo certo bisogno degli arresti di jihadisti di qualche giorno fa per averne la conferma). Il rischio è quello di restare psicologicamente, e quindi anche praticamente, impreparati di fronte alla minaccia. Ci sono dalle nostre parti parecchi aspiranti Don Ferrante (il personaggio manzoniano che attribuiva la peste ad influssi astrali anziché al contagio), gente che si rifiuta di riconoscere la natura del male e le ragioni per cui si propaga, gente che non vuole guardare in faccia la realtà, che preferisce aggrapparsi alla rassicurante idea secondo cui la guerra dei jihadisti abbia un solo vero nemico: gli altri musulmani. I Don Ferrante non vogliono sentirsi dire che i nemici dei jihadisti, invece, sono di due tipi: i musulmani corrotti dalla modernità e il mondo occidentale (i crociati) epicentro di quella modernità.
Forse è arrivato il momento di svegliarsi. I nemici ci sono, e non sono gli americani. Ed è un peccato che non bastino gli avvisi di garanzia per fermarli . 

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