domenica 10 maggio 2015

PERCHE' BRITISH E' MEGLIO




Renzi, con la solita faccia di bronzo da venditore di tappeti, dopo la vittoria di Cameron , ha sottolineato che il Premier ( lui con la P maiuscola...) inglese ha la maggioranza assoluta col 37% dei voti..., per difendere il suo prorenzum (copyright Orsina), appena confezionato dalla sartoria di Montecitorio. 
"Da noi Cameron dovrebbe andare al ballottaggio...". 
Già, e magari perdere perché, pur di votargli contro, la gente si tura il naso e vota l'avversario, oppure, forse ancora peggio, con un nemero di voti inferiore, nel complesso, al 30% degli aventi diritto. 
Ma al di là delle solite fandonie di renzino, come si fa a fare paragoni del genere ?
Non so se facevo le medie o addirittura le elementari quando mi spiegavano che non si sommano le mele con le pere. Una mela + una pera non fanno due di niente. Restano una mela e una pera. Perché sono cose diverse. Quindi il sistema maggioritario inglese, feroce con il suo uninominale secco, senza alcun ballottaggio, figuriamoci premi di maggioranza, in che modo è paragonabile con l'ibrido prorenzum partorito di recente ? 
I 326 seggi i conservatori se li sono conquistati uno per uno, arrivando primi nei rispettivi collegi
Quando alle elezioni precedenti questo NON era successo, furono i liberal-democratici di Clegg a fare da ago della bilancia. Si confrontarono con conservatori e laburisti e decisero che un'alleanza di governo era possibile con i primi.  AI loro elettori non sembra la cosa sia tanto piaciuta,visti i risultati di queste, ma La Gran Bretagna, senza aver avuto il vincitore proclamato nella notte (immagine pubblicitaria cara ai renziani, come se la politica fosse una gara sportiva), un governo lo hanno poi avuto lo stesso, e anche buono, se non altro dal punto di vista economico. E forse è questo che gl inglesi hanno premiato. 
Dopodiché, a riprova che nessun sistema elettorale è perfetto, forse un correttivo va trovato anche a quello inglese, se un partito con tre milioni di voti alla fine ha solo due rappresentanti parlamentari (successo all'Ukip di Farage). Resta che nell'uninominale britannico, devi vincere VERAMENTE per prenderti il seggio, ed è la somma delle vittorie che dà il risultato finale. Senza, ripetiamo, soccorsi artificiosi. 
Dopodiché il premio di maggioranza si può anche accettare, ma stabilendo dei criteri ragionevoli per farlo scattare. Il 40% dei voti potrebbe andare  bene, ma a patto che l'astensione non superi soglie esagerate , e il 70% degli elettori vadano a votare. In caso contrario, o si alza la percentuale  (AInis suggeriva il 45, e io sono d'accordo con lui),  oppure ci si rassegna al fatto che nessuno quel premio se l'è meritato. 
Senza il "paracadute" del ballottaggio, con rischi esiziali, tipo il sindaco di Roma (eletto alla fine col 20% del voto dei romani !!) o del governatore siciliano (idem con patate). 
DI seguito l'analisi di Davide Giacalone sul voto britannico, con inevitabili considerazioni comparative con le cose di casa nostra.
Buona Lettura 


All’inglese





Avessero avuto l’Italiacum non avrebbero potuto scegliere i parlamentari e dovrebbero tornare a votare, per il ballottaggio. Gli inglesi, invece, hanno un sistema elettorale maggioritario, senza sconti per comitive. I parlamentari li hanno scelti uno a uno e il governo lo hanno consegnato, o, meglio, riconsegnato nelle mani di David Cameron, leader del partito conservatore.  
Governerà disponendo della maggioranza assoluta dei parlamentari (330 su 650), pur non avendo raggiunto il 37% dei voti. Vi sembra esagerato? Margaret Thatcher e Tony Blair ebbero quel tipo di maggioranza sfiorando il 30% (e non persero mai le elezioni, semmai il congresso del loro partito). Eppure nessuno ha mai gridato al golpe o al regime, come da noi si starnazza in continuazione. Non perché ci sia un self control very british, ma perché quel sistema elettorale ha validità secolare, senza furbizie oscillanti fra il suino e il latinorum.
Un buon sistema maggioritario ha effetti distorsivi. Per fotografare il voto ci vuole il sistema proporzionale, buono per evitare guerre civili (da noi ha funzionato meravigliosamente), meno per assicurare univocità del potere esecutivo.  
Tanto per capirsi: i nazionalisti scozzesi, con meno del 5% dei voti, conquistano 56 parlamentari; i liberaldemocratici, con quasi l’8%, ne hanno solo 8; per non dire degli Ukip, anti Unione europea, che ne conquistano 1, pur avendo preso più del 12% dei voti. Così vanno le cose, perché i voti si contano su base nazionale, ma i seggi si assegnano collegio per collegio, per cui se prendi il 20% (è capitato) nazionale, ma non prevali in nessun collegio, non becchi nulla. Al contrario, ed è il caso del Partito nazionale scozzese, porti una truppa consistente alla Camera dei comuni se i tuoi voti sono concentrati territorialmente. Nessuno grida allo scandalo perché le regole del gioco sono note, non mutate e stabili. Da noi è l’esatto opposto: si approvano leggi elettorali nuove, che però non entrano in vigore e non possono essere utilizzate subito.
Per forza che, nel Regno Unito, i vari Ed Miliband (laburisti), Nick Clegg (liberaldemocratici) e Nigel Farage (anti Ue) si dimettono: mica possono prendersela con il destino cinico e baro, bensì solo con sé medesimi.
Messa d’un canto l’invidia, per tanta civiltà democratica (da noi sarebbe complicato far funzionare quel sistema, ma l’approssimazione francese, con l’uninominale a doppio turno, potrebbe dare delle soddisfazioni), veniamo a considerazioni di ordine generale. Gli sconfitti sono tre: i laburisti, che hanno radicalizzato troppo la loro posizione, confermando la regola dei buoni sistemi maggioritari, secondo cui vince chi riesce a prendere una fetta dell’elettorato altrui; i liberaldemocratici, che si sono svenati in una collaborazione governantiva che ha deluso le speranze della volta scorsa e nella quale non sono riusciti a caratterizzarsi; e gli anti Ue, che godono di vasta stampa continentale, ma di minore consenso insulare. I vincitori sono due: i conservatori, naturalmente, che hanno saputo interpretare la forza del mercato, attirando società e contribuenti dal resto d’Europa, facendo calare il fisco e la spesa pubblica, quindi evidenziando un legame da noi ancora misconosciuto; e i nazionalisti scozzesi, che hanno perso il referendum, segno che l’elettorato non aveva alcuna voglia di separarsi, ma tengono alta una bandiera autonomista che raccoglie un consenso vasto. Senza dimenticare che loro sono europeisti, quindi capaci di dare sostanza reale e non solo declamatoria, a quella richiesta d’autonomia.
Si spera che il voto distenda i nervi, nel Regno. I problemi ci sono, eccome, ma ora il governo è nel pieno dei poteri e può gestirli. Questo dovrebbe aiutare a maneggiare la faccenda del referendum sull’uscita dall’Ue: la classe dirigente inglese è contraria, giustamente, e noi stessi speriamo che non accada. Avere un Paese non statalista e bilancisticamente socialista può essere seccante, in certi negoziati, ma è complessivamente un bene.
Cameron ha ora la maggioranza assoluta, dopo avere governato una legislatura in coalizione con i liberaldemocratici. La cosa, evidentemente, non gli ha nuociuto. E non ha arrecato danni agli inglesi. Il fatto è che i governi forti esistono solo nei sistemi deboli. La muscolatura elettorale lievita fra i microcefali istituzionali. Quel che conta è la forza di un sistema che si compone di governo, equilibri istituzionali (Costituzione, nel nostro caso) e autonomia del mercato. Da noi si pensa che tutto dipenda dalla forza del governo, dimenticando che l’Italia ha conosciuto uno straordinario boom economico facendo finta di cambiare i governi come fossero abiti stagionali.
Il sistema inglese ha ripetutamente dimostrato di non essere affatto bipolare o bipartitico. La sostanza è del tutto diversa: l’equilibrio istituzionale è condiviso, sicché non si dubita della legittimità e affidabilità del vincitore, anche se da quello si dissente. Prego studiare, per non continuare a dire sfondoni.
Se il sistema elettorale inglese ha funzionato, anche colà hanno fatto cilecca i sondaggi. Il perché è semplice: si sonda efficacemente un mercato dotato di continuità storica. Se a ogni giro cambiano o crescono i corridori, ogni previsione diventa meramente nasometrica. Peggio per chi paga per farsi prendere in giro.

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