giovedì 18 giugno 2015

AINIS CONTINUA A GETTARE L'ALLARME : ASTENSIONISMO OVVERO LA DEMOCRAZIA DISABITATA

 

Ho scritto tanto sull'astensionismo, denunciando, io liberale e quindi non certo legato alla mitologia del "popolo", come, a certi livelli, sia la stessa ragione democratica ad essere vulneata. Ho anche polemizzato vivacemente - a volte aspramente - con amici e lettori che, ben contenti dei risultati che l'astensione comportava, penalizzando soprattuto il campo avversario, teorizzavano il "segno di maturità dell'elettorato". I migliori vanno a votare, gli altri, si astengono.... E per suffragare la loro tesi, facevano comparazioni con paesi diversi dal nostro ( con divisioni minori, con educazione civica superiore, con una partecipazione da sempre più ridotta), dove da tempo  un'astensione del 40% era fisiologica. Sono le stesse persone che dicono che le mele e le pere non vanno sommate (giusto), ma poi, come in questo caso, si scordano il saggio monito. Sono quindi soddisfatto di leggere l'editoriale di Michele Ainis, costituzionalista e osservatore attento della società, che ripropone (non è certo la prima volta nemmeno per lui) la questione, alla luce delle recenti elezioni, sia le regionali, che coinvolgevano oltre 22 milioni di elettori, che i ballottaggi comunali di domenica (e lunedì per la Sicilia), dove l'astensione si è proposta con numeri che nemmeno la DC di De Gasperi raggiungeva...
Stavolta qualche nervosismo in più c'è stato perché il fenomeno ha morso anche coloro che finora ne erano stati avvantaggiati, parlo del PD, ma continua a mancare, rileva giustamente il professore, la sensibilità del problema dal punto di vista della Democrazia. 
Tra l'altro questo accade in un'epoca dove chi governa è chiamato a tentare riforme importanti, da tempo necessarie e che la crisi economica, che ha natura stavolta non meramente ciclica, ha reso veramente ineludibili, pena una sorte simil Grecia, sia pure ritardata nel tempo. 
Per farle, non basta avere i numeri in parlamento, raggiunti peraltro attraverso alchimie di discutibili leggi elettorali, con premi che sostituiscono i voti che mancano nelle urne, ma ci vuole un effettivo CONSENSO, che NON consiste nel quarto (se non nel quinto, al netto degli astenuti) del corpo elettorale.
Ainis propone soluzioni che effettivamente sembrano astruse e che però hanno trovato applicazione, e comunque cita la parola quorum, senza il quale non scattano certi meccanismi.
Non è mai bello autocitarsi, ma lo aveva scritto il Camerlengo a proposito del premio di maggioranza, sia al primo turno che al secondo : senza un certo quorum di elettori votanti, NIENTE premio, e i seggi si distribuiscono proporzionalmente. Saranno necessarie delle alleanze di governo (come accade in Germania, come è accaduto la scorsa legislatura in GB), oppure si torna a votare. 
E' bello avere un progetto, una "narrazione" da svolgere, però su di esse bisogna attrarre un consenso VERO.
Altrimenti non funziona, come mi sembra si stia ampiamente vedendo.

 
Il Corriere della Sera - Digital Edition

Troppi silenzi sull’astensione
 
 
Uno vince, l’altro perde. Ma c’è un partito che a ogni elezione si gonfia: il non partito del non voto. I numeri dell’astensionismo elettorale ormai surclassano la Dc dei tempi d’oro, pur senza ottenerne in cambio seggi e ministeri. Difatti alle Politiche del 2013 gli astenuti erano già il primo partito, con 11 milioni di tessere fantasma. Alle Europee del 2014 l’affluenza si è fermata al 58%, in calo di 8 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Alle Regionali del 2015 un altro salto all’indietro: 54%, ma sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche. Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53%) sui votanti.
Questo fenomeno cade per lo più sotto silenzio. Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti. È un errore, perché qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza. Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale. Però se l’onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d’indifferenza, nel migliore dei casi; d’avversione, nel peggiore. E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un’alluvione.
La questione, dunque, interroga la democrazia, anzi la pone davanti a un paradosso. Perché la democrazia è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Il suo fondamento sta nella regola di maggioranza.

E allora la democrazia entra in contraddizione con se stessa, quando nega agli astenuti ogni influenza, benché essi siano la maggioranza del corpo elettorale. Di più: tradisce la propria vocazione. Perché la democrazia è inclusiva, accoglie pure le opinioni radicali. Tuttavia con il popolo degli astenuti diventa esclusiva, respingente. Anche a costo di rinchiudersi in una casa vuota: la democrazia disabitata.
C’è modo di riannodare questo filo? Non imponendo l’obbligo del voto. Funzionava così nel dopoguerra, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi presso il sindaco, e per sovrapprezzo beccavano una nota nel certificato di buona condotta; ma il rimedio sarebbe peggiore del male, offenderebbe i principi liberali. Non è una buona soluzione nemmeno quella escogitata in Francia nel 1919: se non vota almeno la metà del corpo elettorale, le elezioni si ripetono. Con questi chiari di luna, rischieremmo di votare ogni domenica. Però la via d’uscita c’è, e oltretutto procurerebbe un risparmio di poltrone. Va alle urne il 50% degli elettori? Allora dimezzo il numero dei parlamentari. E ne dimezzo altresì le competenze, trasferendole ai Comuni, se per avventura il voto cittadino risulta più attraente di quello nazionale. In caso contrario apro ai referendum sulle decisioni del sindaco, per supplire alla sua scarsa legittimazione.
Un’idea bislacca? Fino a un certo punto. Nella Repubblica di Weimar si guadagnava un seggio ogni 60 mila voti validi; e il medesimo sistema fu riproposto in Austria nel 1970. Anche in Italia, fino al 1963, le Camere esponevano numeri variabili in base alla popolazione complessiva; mentre c’è tutt’oggi un quorum per la validità dei referendum. L’alternativa, d’altronde, è una democrazia senza linfa vitale, perché il non voto ne sta essiccando le radici. Per salvarla da se stessa, qui e ora, serve un lampo di fantasia istituzionale.  

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