sabato 6 giugno 2015

FOSSIMO UN PO' STUFI DI PARLARE DI GRECIA...LA PROVOCAZIONE ( MA LO E' ? ) DI FRANCESCO GIAVAZZI

 

Applauditissimo Tsipras da tutto il Parlamento ellenico, o quasi, quando retoricamente (si) domanda se veramente i creditori potevano pensare che ci fosse anche un solo deputato greco disposto a votare la diminuzione delle pensioni e l'aumento delle bollette della luce.
Il tutto nel giorno in cui i debiti col FMI non vengono pagati, rimandando il tutto a fine mese. "Pagheremo tutto insieme", dicono ad Atene.
Non so che Lagarde gli creda, le Borse, tutte in ribasso, sembra poco.
Ma quand'anche riuscissero a farlo, poi il mese prossimo ?
Qui il problema, mi pare di capire, è che bisogna radicalmente cambiare strada. Quella seguita in questi anni, con prestiti continui a patto di promesse di riforme solo molto parzialmente realizzate dal governo precedente e ora tutte rinnegate dal nuovo (eletto, il che conta), non funziona.
O si decide che il debito va ristrutturato ( e probabilmente tagliato, per una parte consistente), con un rientro più lungo a quello delle rate attualmente in scadenza, dal lato dei creditori, mentre la Grecia prende misure economiche con un respiro di realizzazione quinquennale (se non decennale), oppure si prende atto, come fa Giavazzi nello sconsolato articolo che segue, che i greci non hanno nessuna intenzione di rivoltarsi come un calzino (come noialtri del resto, chiunque sia il "rivoltatore" del momento), di fare le riforme che vengono chieste, e li si molla una volta per tutte. Si perderanno i soldi dati, ma non ce ne saranno altri e si uscirebbe da una incertezza infinita che a sua volta ha costi non indifferenti per il malumore che genera sui Mercati.
Buona Lettura 





Il Corriere della Sera - Digital Edition

Discutiamo troppo di grecia? 
Francesco Giavazzi
 
Da oltre 5 anni è la Grecia il problema che più preoccupa l’Europa: non il lavoro, non l’immigrazione e nemmeno la Russia di Putin, ma un Paese che rappresenta meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) delle nazioni che partecipano all’unione monetaria. Sarebbe interessante calcolare quante ore la signora Merkel ha dedicato ad Atene in questi 5 anni. Che penseremmo se scoprissimo che il presidente Obama dedica altrettanto tempo ai problemi del Tennessee, uno Stato che conta, nella federazione americana, un po’ più della Grecia nell’eurozona?
In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.
Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa — le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras — è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. 

Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.
Certo, anche gli europei hanno sbagliato. Da quando, nel 2002, Atene è entrata nell’unione monetaria abbiamo prestato alla Grecia oltre 400 miliardi di euro (circa due volte il Pil del Paese) senza chiederci se quella cifra sarebbe mai stata ripagata. È però inutile oggi sprecar tempo, coltivando l’illusione, che ha sfiorato i finlandesi, che forse potremmo venir ripagati in natura, con la cessione di qualche isola. Le cannoniere britanniche dell’Ottocento fortunatamente non ci sono più. Il passato è passato, meglio metterci una pietra sopra.
E se i greci non vogliono modernizzarsi, inutile insistere: d’altronde hanno votato a gran maggioranza un governo che continua ad essere popolare. Hanno scelto, spero consciamente, di rimanere un Paese con un reddito pro capite modesto, metà dell’Irlanda, inferiore a Slovenia e Corea del Sud, che fra qualche anno verrà superato dal Cile. Spero che però nessuno ad Atene si illuda che fuori dall’euro, anche una volta cancellato il debito, inflazione e svalutazione possano essere un’alternativa a rendere l’economia più efficiente.
Penso sia venuto il momento di chiederci quanto sia importante per noi tenere la Grecia nell’Unione Europea, perché di questo si tratta: se Atene abbandonasse l’euro dovrebbe anche uscire dall’Ue. Il criterio non può essere la difesa dei nostri crediti, che comunque non potranno essere recuperati. A guidarci non può essere nemmeno quanto rischi l’unione monetaria che ormai, grazie alla Banca centrale europea, è sufficientemente robusta per poter affrontare l’uscita di un Paese come la Grecia.
La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera geopolitica fra Europa e Paesi islamici, in primis la Turchia. Il che non significa cedere al ricatto di Tsipras, ma accettare il rischio che comporta la condivisione della moneta con un Paese che ha liberamente deciso di non volersi modernizzare. Ma il salto politico necessario per porci questa domanda non siamo in grado di farlo. L’unione monetaria ha avuto il grande merito di accelerare l’integrazione economica — si pensi al trasferimento a Francoforte della vigilanza sulle banche — ma non può essere un sostituto dell’integrazione politica. Se la crisi greca ci aiuterà a comprenderlo, non saranno stati 5 anni spesi invano . 

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