In Grecia si tornerà a votare il 20 settembre. Abbiamo già scritto perché riteniamo questa una conseguenza quasi inevitabile alla luce di quanto accaduto in quel paese dopo il voto di gennaio 2015.
Le promesse elettorali di Tsipras si sono praticamente liquefatte di fronte alla realtà della indisponibilità europea di accogliere le richieste del nuovo governo e la volontà di quest'ultimo di restare ancorato all'Area Euro - al di là se fossero bluff o meno i duetti con Putin o l'idea di tornare ad una moneta nazionale - , Syriza è entrata in crisi, la sinistra più dura e pura si è scissa e oggi in Parlamento il premier ha bisogno dell'opposizione per approvare gli interventi economici richiesti dalla UE per continuare ad erogare soldi.
In queste condizioni, è evidente che il voto espresso alle ultime elezioni è stato disatteso, magari per ottimi motivi, ma è giusto, in democrazia, tornare allora dagli elettori e dire "cari signori, la situazione è questa, e quindi certe cose le possiamo fare, altre no. Esprimetevi su questo".
Sarebbe bello che anche da noi avvenisse così, invece di vedere il mercato delle vacche costante cui si assiste in Parlamento per tenere a galla un governo senza maggioranza vera e con uno scenario completamente rivoluzionato rispetto al voto del 2013. In questo modo la democrazia parlamentare è solo teatrino, ché tanto una volta entrati partiti ed eletti ne fanno di ogni, in completo spregio dei programmi e degli impegni sui quali il voto era stato chiesto ed ottenuto.
Certo, stando ai sondaggi, Syriza, per quanto ancora primo partito, non avrà la maggioranza per governare da sola ( in verità non ce l'aveva nemmeno dopo la vittoria del 25 gennaio, tanto che aveva dovuto comunque imbarcare quelli dell'estrema destra !, in virtù della comune belligeranza anti troika) e dopo settembre Tsipras dovrà probabilmente decidersi ad un governo di "larghe intese", ad una "grosse koalition" di stampo germanico, per poter andare avanti.
Ma questo, stavolta, chi voterà Syriza LO SA, e quindi DOPO potrà accettarlo come male minore o comunque inevitabile.
Intanto però i mercati si sono agitati un po' alla prospettiva dell'ennesima turbolenza elettorale ellenica, peraltro NON in maniera omogenea.
E Luca Ricolfi ha analizzato da par suo questa diversità tra paesi affidabili e paesi a rischio.
Indovinate noi dove siamo ? Bravi, lì.
Buona Lettura
Sul futuro della Grecia, e quindi dell'Europa, i pareri
divergono. Gli ottimisti pensano che ormai siamo entrati in una fase di
stabilizzazione, e che i prossimi anni serviranno alla Grecia per
modernizzarsi, e all'Europa per correggere le sue regole di funzionamento, che
così cattiva prova di sé hanno dato in questi anni. I pessimisti, invece,
pensano che l'ultimo salvataggio sia solo servito a comprare tempo, e che i
nodi che non sono stati sciolti in questi mesi di estenuanti trattative si
ripresenteranno al più presto
La decisione di Tsipras di andare a nuove elezioni,
annunciata giovedì scorso, e il piccolo temporale finanziario che si è
scatenato sui mercati subito dopo, tra giovedì e venerdì, sembrerebbero
indicare che le preoccupazioni dei pessimisti non siano infondate. È
ragionevole pensare, infatti, che l'implementazione delle riforme promesse non
sarà indolore, che vi saranno continue resistenze e marce indietro da parte
greca (alcune già emerse, sulla vendita dei porti ad esempio), e che ad ogni
tira e molla i mercati dei titoli di Stato reagiranno più o meno come hanno fatto in questi
ultimi 5 anni. Esiste
infatti un ben consolidato meccanismo, uno schema preciso, che governa
l'andamento dei rendimenti dei titoli di Stato. Quando i mercati sono
tranquilli, i rendimenti dei vari Paesi dell'Eurozona evolvono in modo
parallelo, seguendo gli impulsi dell'economia e delle autorità monetarie.
Quando i mercati sono in allarme, perché uno o più Paesi attraversano una crisi finanziaria, si crea
invece una divaricazione, una sorta di split: i rendimenti richiesti ad alcuni
Paesi, percepiti come a rischio, si alzano, mentre i rendimenti di altri Paesi,
percepiti come sicuri, si abbassano. È esattamente quello che è successo fra
giovedì e venerdì scorso, dopo l'annuncio delle elezioni anticipate in Grecia:
i rendimenti dei titoli ellenici sono saliti di 19 punti base, mentre quelli
della Germania sono scesi di 6 .
Il punto interessante, però, non è di sapere che cosa è
successo agli estremi, ossia nel Paese più affidabile (Germania) e in quello
meno affidabile (Grecia). Il punto chiave è: quali Paesi hanno seguito la
Grecia, e quali si sono comportati in modo simile alla Germania?Ebbene, la
risposta è che i rendimenti sono discesi non solo in Germania ma anche in
Belgio (-4), in Francia (-2) e persino in Irlanda (-2), un tempo annoverata fra
i Paesi a rischio. Mentre sono saliti in Portogallo (+5), in Italia (+4) e in
Spagna (+2). La mini- turbolenza partita
dalla Grecia, in altre parole, si è propagata ai paesi a rischio, mentre ha
finito per fornire sollievo non solo alla Germania ma anche agli altri Paesi
percepiti come affidabili.
Si potrebbe credere che questo schema, e la
relativa bipartizione dei Paesi in Paesi a rischio e Paesi affidabili, sia
relativamente volatile, e che quel che è successo negli ultimi due giorni
faccia storia a sé. Ma non è assolutamente così. Negli ultimi 5 anni, ossia
dalla crisi del 2011, le cose sono andate sempre nel medesimo modo, in
occasione di ogni tempesta finanziaria, e l'unico cambiamento importante –
l'unica rottura dello schema – è stato l'uscita (nel 2013) dell'Irlanda dal
gruppo dei Paesi a rischio. Se le cose stanno così, la situazione dell'Italia
non appare affatto rassicurante
Se le cose stanno così, la situazione dell'Italia non appare
affatto rassicurante. In concreto, il meccanismo dello split significa questo:
uno Stato sovrano può anche attraversare un lungo periodo di denaro a buon
mercato, ma questo non lo esime da un brusco aumento dei rendimenti non appena
si manifesti una crisi finanziaria, anche se essa dovesse provenire da un Paese
differente. Se lo Stato fa parte del gruppo dei Paesi percepiti come a rischio,
la crisi lo contagerà; altrimenti no, anzi potrebbe persino favorirlo (vedi la
Germania nei momenti peggiori della crisi dell'euro).
Da questo punto di vista è arduo non vedere con una certa
preoccupazione gli orientamenti del nostro governo in materia di conti
pubblici. Già il fatto di aver, per ben tre volte, spostato avanti di un anno
il pareggio di bilancio (prima dal 2015 al 2016, poi al 2017, e ora addirittura
al 2018, allorché l'attuale governo non sarà più in carica), non ha certo
contribuito a migliorare la percezione dell'Italia sui mercati finanziari. Ma
ancora più inquietante appare la sproporzione fra l'ammontare delle promesse e
la possibilità di coprirle con tagli di spesa. La richiesta all'Europa di “ulteriore
flessibilità” significa, in buona sostanza, che ancora una volta si punta a
coprire le spese facendo deficit, e che anche nel 2016 il rapporto debito/Pil
finirà per aumentare (per rendersene conto basta confrontare la velocità di
crescita del debito con quella del Pil nominale: secondo gli ultimi dati
disponibili il primo galoppa oltre il 2%, il secondo arranca sotto l'1,5%).
Tutto questo potrebbe non preoccuparci ove l'Italia fosse
già entrata a far parte del club dei Paesi percepiti come affidabili, come
l'Irlanda a partire dal 2013. In tal caso i nostri conti pubblici sarebbero
relativamente al sicuro, e i rischi di contagio non dovrebbero assillarci
troppo. Ma non è questa la situazione, sfortunatamente. Ammesso che esista, e
non sia una illusione di chi ci governa, l'affidabilità dell'Italia è limitata
al piano della politica, e nella migliore delle ipotesi ci regalerà il permesso
di sforare di qualche decimale di Pil nei conti pubblici del 2016. Sul piano dell'economia, la patente di
affidabilità dobbiamo ancora conquistarcela, come si vede dall'andamento dello
spread ogni volta che c'è maretta sui mercati finanziari. Per quel tipo di
patente dovremo ancora aspettare, e non è detto che rimandare il risanamento
dei conti pubblici sia la scelta più saggia per abbreviare l'attesa
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