venerdì 18 settembre 2015

AINIS : FARE CATTIVE RIFORME E' PEGGIO CHE NON FARLE.E' GIA' SUCCESSO.

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Bellissimo il compendio di bugie, che con metodo costante accompagnano l'estenuante vicenda della riforma del Senato, realizzato da Michele Ainis nel suo intervento sul Corriere della Sera.
Tutte rilevanti, ma la prima, quella più sovente sulle labbra di premier e suoi ventriloqui, è quella che mi irrita di più.
Buona Lettura 


  Le sette bugie da smascherare

di Michele Ainis



Che cos’è una bugia? È solo la verità in maschera, diceva lord Byron. Difatti al Carnevale delle riforme la verità si maschera, s’occulta, si traveste. 

La verità genera falsi d’autore e quei falsi diventano poi luoghi comuni, accettati da entrambi i contendenti. L’ultima balla è anche l’unica credibile: se v’impuntate sull’elettività dei senatori potremmo sbarazzarci del Senato, dichiara la ministra Boschi. Perché no? Dopotutto il monocameralismo funziona in 39 Stati al mondo. E dopotutto meglio nessun Senato che un Senato figlio di nessuno. Ma per ragionare a mente fredda dovremmo intanto liberarci dalle bugie che ci raccontano. Ne girano almeno sette, come i peccati capitali.
Revisioni costituzionali
Primo: in Italia si tentano riforme costituzionali da trent’anni, senza cavare mai un ragno dal buco. Questa è l’ultima spiaggia. Falso: dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Se il sistema, nonostante le medicine, non guarisce, significa che la cura era sbagliata. Dunque le cattive riforme procurano più danni del vuoto di riforme.
Il ruolo delle Camere
Secondo: Vade retro gubernatio. La Costituzione è materia parlamentare, non governativa. Sicché l’esecutivo deve togliersi di mezzo, abbandonando la pretesa di dirigere l’orchestra. È l’argomento sollevato dalle opposizioni, così come l’argomento precedente risuona in bocca alla maggioranza. Ma è falso pure questo. O meglio: sarà esatto nel paradiso dei principi, non nell’inferno della storia. Nel 2001 la riforma del Titolo V venne accudita dal governo Amato. Nel 2005 la Devolution era stata scritta di suo pugno dal ministro Bossi. Nel 2012 l’obbligo del pareggio di bilancio fu imposto dal governo Monti. Ma già nel 1988 il gabinetto De Mita si era presentato agli italiani come «governo costituente».
L’iter delle leggi
Terzo: la riforma è indispensabile per accelerare l’iter legis. Giacché in Italia il processo legislativo ha tempi biblici, che dipendono dal ping pong fra Camera e Senato. I dati, tuttavia, dimostrano il contrario. Il tempo medio d’approvazione dei disegni di legge governativi era 271 giorni nella XIII legislatura (1999-2001); in questa legislatura è sceso a 109 giorni. Mentre nel quinquennio precedente (2008-2013) il Parlamento ha licenziato la bellezza di 391 leggi. No, non è una legge in più che può salvarci l’anima. Semmai una legge in meno, e anche una fiducia in meno. È la doppia fiducia, non il doppio voto sulle leggi, che ha reso traballanti i nostri esecutivi.
L’elezione diretta
Quarto: l’elettività dei senatori. Serve per assicurare un contrappeso al sovrappeso della Camera, dice la minoranza del Pd. Falso. Come ha osservato Cesare Pinelli, l’elezione diretta determina l’una o l’altra conseguenza: un’assemblea con gli stessi equilibri politici della Camera, ovvero con equilibri opposti. Nel primo caso il Senato è inutile; nel secondo è dannoso. Del resto l’elezione popolare non c’è in Francia, né in Germania, né in varie altre contrade. Non c’è nemmeno in Inghilterra, tanto che il governo (nel 2012) aveva pensato d’introdurla. Ma i Lord inglesi si sono ribellati all’elettività, come i senatori italiani si ribellano alla non elettività.
Gli emendamenti
Quinto: dipenderà da Grasso, il signore degli emendamenti. Se apre il vaso di Pandora dell’articolo 2, se rimette in discussione i criteri di composizione del Senato, la riforma s’impantana. Ma non può farlo, perché in Commissione la Finocchiaro li ha già dichiarati inammissibili. Giusto? No, sbagliato. In primo luogo c’è almeno un precedente: nel marzo 2005 quattro emendamenti (firmati da Bassanini, Zanda e altri) vennero recuperati in Aula dal presidente Pera. In secondo luogo non è Grasso che vota, lui mette ai voti. E la maggioranza o c’è o non c’è: se manca sull’articolo 2, mancherà pure sugli altri articoli in esame. In terzo luogo la pallina dovrà comunque rimbalzare sulla Camera, dato che il governo stesso punta a correggere diversi aspetti del testo fin qui confezionato. C’è ancora tempo per il giudizio universale.
I costi
Sesto: con la riforma otterremo un Senato a costo zero, perché i senatori-consiglieri regionali non intascheranno alcuna indennità. Davvero? Mica verranno a Roma in bicicletta: treni e alberghi ci toccherà comunque rimborsarli. Ma dopotutto basta un’occhiata al bilancio del Senato. Nel 2014 Palazzo Madama ha speso oltre mezzo miliardo, di cui 79 milioni per i senatori, quasi il doppio (145 milioni) per il personale. L’unico Senato gratis abita nei Paesi dove non c’è il Senato.
Le urne anticipate
Settimo: o la riforma o il voto. È l’arma nucleare minacciata dal governo per spegnere il sacro furore dei dissidenti, però trascura un elemento di non poco conto. Voteremmo, infatti, con il Consultellum, un proporzionale puro; e il primo a rimetterci sarebbe proprio Renzi. È vero casomai l’opposto: dopo la riforma, voto anticipato. Come detta la logica delle istituzioni, perché non si può tenere in moto un’automobile cambiandone il motore. E come suggerisce, guardacaso, una doppia coincidenza: l’Italicum, la nuova legge elettorale, entrerà in vigore nel luglio 2016; e un paio di mesi dopo il governo intende celebrare il referendum sulla riforma costituzionale. Sarà per questo che in Parlamento vogliono tirarla per le lunghe. Il tempo porta consiglio, ma il tempo dei parlamentari porta pensione .. 

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