mercoledì 23 settembre 2015

IL MONUMENTO CHE RENZI DEVE ERIGERE A GRILLO

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Se non ci fosse Grillo, per Renzino bisognerebbe inventarlo. Questa la sostanza dell'editoriale arguto del solito, bravissimo Angelo Panebianco.
Indica due debiti enormi del premier nei confronti del guru dei pentastellati, dei quali il secondo è all'evidenza di tutti : grazie a Grillo (adesso un po' forse anche a Salvini, ma la Lega è al 15%, il M5S è dato, nei sondaggi più recenti, addirittura al 27 !!) , Renzi si propone all'elettorato moderato come l'unico leader sistemico, non avventurista. Insomma, la famosa diga di stampo democristiano, magari da votare turandosi il naso. E' già successo, alle europee, dove il boom renziano (il mitico 41%, ormai nei sogni dei fan del premier) ebbe, come cause principali (ancorché non uniche, va detto) la mancia elettorare degli 80 euro ai lavoratori dipendenti e, appunto, il grido di "Annibale - alias Grillo - è alle porte". Conosco più di qualcuno che lo ha votato sotto questo ricatto emotivo. 
Panebianco però mette in evidenza il primo, in ordine cronologico. Agli inizi del 2013 Renzino era reduce dalla sconfitta, nobile ma netta, alle primarie contro Bersani, con quest'ultimo avviato a vincere anche le politiche di febbraio. 
Fu l'exploit di Grillo ad azzoppare mortalmente il capo della "ditta" e a creare il presupposto della nuova sfida di Renzi per la segreteria del PD, infatti conquistata a dicembre, appena un anno dopo il rovescio subito per la candidatura a premier. Non solo, Grillo, dopo aver determinato la "Non vittoria" di Bersani ( Panebianco parla esplicitamente di "sconfitta", perché politicamente quella fu, e infatti per i bersaniani e alleati le conseguenze ancora pesano), gli sbarrò anche qualunque possibilità arrangiata di approdare in qualche modo (che so, l' astensione al voto di fiducia al nascente governo) a Palazzo Chigi, con i cittadini ortotteri che mortificarono il fallito smacchiatore di giaguari in un incontro streaming che ancora brucia al malcapitato. 
Senza il successo dei grillini nel febbraio 2013, era Renzi a stare in minoranza, e chissà quando - e se - il suo treno si sarebbe ripresentato (il governo Bersani - Monti doveva durare 5 anni, tanti da passare in panchina...). 
La storia non si fa con i se, ma, spiega bene Panebianco, la provvida presenza di Grillo è fattore del presente, ancora fausto per l'inquilino di Palazzo Chigi.




IL DEBITO DI RENZI CON GRILLO
di Angelo Panebianco

 

I sondaggi sulle intenzioni di voto attribuiscono al movimento Cinque Stelle percentuali da capogiro, lo indicano come il secondo partito in Italia. La rilevazione di Pagnoncelli, pubblicata sabato scorso dal Corriere, conferma: i Cinque Stelle sono al momento scelti dal 27% degli elettori potenziali contro il 33% di preferenze per il Partito democratico. Tenuto conto dell’altissimo numero di indecisi rilevati, però, è difficile credere al momento che in elezioni politiche «vere» i Cinque Stelle possano conquistare una così elevata percentuale di votanti.
Tuttavia, gli orientamenti fotografati oggi dai sondaggi hanno l’effetto di tenere sotto pressione la classe politica. E dovrebbero anche ricordare a Matteo Renzi quanto grande sia il debito di gratitudine che egli ha contratto con Beppe Grillo. Per due ragioni.
La prima è che senza il clamoroso successo elettorale dei Cinque Stelle nelle elezioni del 2013 e la conseguente sconfitta (perché di una sconfitta si trattò) di Pier Luigi Bersani e del partito da lui guidato, Matteo Renzi non avrebbe potuto vincere le successive primarie, non sarebbe diventato segretario del Pd, non sarebbe al governo. 

Furono la crisi e lo sbandamento indotti fra i militanti e gli elettori democratici da quel risultato a spianargli la strada. Tolto il caso dei true believers , dei veri credenti (quelli che credevano e credono nei Cinque Stelle e nei loro programmi), è un fatto che coloro che, in quelle elezioni, votarono Grillo con il solo scopo di scatenare una reazione all’interno della classe politica tradizionale, ottennero il risultato voluto: l’arrivo di Renzi ne fu una diretta conseguenza. 
M a c’è anche una seconda ragione per cui Renzi deve essere grato a Beppe Grillo. Ha precisamente a che fare con i sondaggi testè ricordati. Fin quando il movimento Cinque Stelle continuerà ad essere percepito come il più temibile competitor del Partito democratico, Renzi potrà rivendicare la propria indispensabilità: una variante aggiornata della «diga» incarnata dalla Democrazia Cristiana agli occhi degli elettori ai tempi della Guerra fredda: vade retro Partito comunista allora, vade retro Cinque Stelle oggi.
Si noti che quei sondaggi tolgono anche un po’ di credibilità ai propositi scissionisti della sinistra del Pd. Se il grosso degli elettori di sinistra che odia Renzi si indirizzerà davvero verso i Cinque Stelle, gli eventuali scissionisti potrebbero trovarsi a dare vita a un piccolo «partito dei pensionati» (magari iscritti alla Cgil) destinato all’irrilevanza.
Sembra che il Paese non riesca a sfuggire a una maledizione, non riesca a fare a meno di trovarsi di fronte a due alternative, nessuna delle quali davvero allettante. La prima è quella che abbiamo conosciuto nel periodo 1994 — 2011 (anno della caduta dell’ultimo governo Berlusconi): un bipolarismo «immoderato», fondato sulla delegittimazione reciproca fra gli schieramenti. Il vantaggio di quell’assetto era che permetteva l’alternanza al governo. Lo svantaggio era che il clima da guerra civile rendeva la democrazia assai mal funzionante.
La seconda alternativa è quella conosciuta nel cinquantennio democristiano e che, con tutti gli adattamenti del caso, potrebbe trovare una parziale replica nell’era Renzi: un partito elettoralmente grande che si colloca al centro dello schieramento, in grado di fare incetta di voti sia a destra che a sinistra, e che è anche il più credibile ostacolo al dilagare di forze anti-sistema o percepite come tali. In tale assetto, molto o poco che duri, l’alternanza al governo è di fatto impossibile.
Se Renzi supererà lo scoglio della riforma del Senato e se non sarà costretto a fare concessioni alle minoranze sulla legge elettorale, le sue probabilità di vittoria alle prossime elezioni politiche saranno assai alte. Per l’assenza di alternative plausibili. Naturalmente, devono realizzarsi due condizioni. La prima è che la ripresa economica si consolidi. La seconda è che egli abbia dall’Europa aiuti adeguati per governare (o per dare l’impressione di governare) l’immigrazione. Se queste due condizioni si realizzeranno, Renzi avrà vinto la sua scommessa. Continueranno in tanti, come hanno fatto fin qui, a dargli del «democristiano». Anche se, per la verità, sia le condizioni storiche generali che le stesse caratteristiche di Renzi, rendono improprio quell’accostamento. Tranne che per la questione della «diga». 

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