La riforma del Senato alla fine si farà, e resterà coi difetti già elencati da vari osservatori ( sul blog trovate varie analisi critiche, soprattutto di Michele Ainis, costituzionalista ). Renzino, in perfetto stile berluscoide, ovviamente aggiornato ed evoluto al passare del tempo, è bravissimo a trasformare ogni questione in derby, sapendo che in questo momento è destinato a stravincerli tutti, potendo contare su vari fattori positivi, tra cui, fondamentali, il disfacimento di Forza Italia, il terrore di tantissimi parlamentari che questa sia per loro l'ultima legislatura, e quindi da una parte cercano di acquisire benemerenze per le prossime elezioni (dove, tra l'altro, mancheranno 300 posti a sedere...) ma, soprattutto, di prolungare questa il più possibile (potessero, anche oltre il 2018...).
Verderami, nel descrivere i mutamenti in corso in casa PD, evidenzia correttamente come spirito costituente in giro se ne veda ben poco, e non solo in Parlamento. Anche quelli che osservano e commentano dal di fuori hanno più toni e atteggiamenti da tifo calcistico che non la preoccupazione di riforme che non investono il regolamento del condominio ma l'assetto della nazione.
LA NUOVA FACCIA DEL PD
OLTRE LE DIVISIONI DI OGGI
di FRANCESCO VERDERAMI
Le riforme servivano a cambiare il sistema o a regolare i
conti? Perché finora non si sono visti padri costituenti in Parlamento, mentre
si contano vincitori e vinti di un duello che ha in palio solo gli assetti
politici, presenti e futuri. Se Renzi è a un passo da uno storico traguardo, se
non vede l’ora di annunciare la fine del bicameralismo — pietra angolare del
suo progetto decennale — è perché Berlusconi (non Grillo nè Salvini) ha perso
la scommessa: puntava sulla scissione del Pd e sullo sfaldamento dell’area di
governo, invece sta assistendo all’emorragia di Forza Italia e all’allargamento
della maggioranza.
Il fatto che l’attenzione sia (per ora) tutta concentrata
sulle dinamiche politiche e non sulle incognite legate al funzionamento a
regime della riforma, lascia intuire come il dibattito sulle modifiche alla
Carta sia stato poco più di un pretesto. Ma il pretesto sta producendo effetti
epocali, sta ridisegnando la geografia dei partiti e delle alleanze. E tutto
finisce per ruotare — ecco l’anomalia — attorno a un unico personaggio: Renzi.
D’altronde questo è il risultato di un’altra sfida, quella
lanciata dalla minoranza pd al suo segretario-premier, che non poteva finire
diversamente da com’è finita, cioè con un compromesso. Lo strappo avrebbe
portato alla scissione. Ed è stato proprio nella trattativa sulle riforme, nel
modo spregiudicato in cui l’ha condotta, che si è capito qual è il modello del
leader democratico: Renzi non ha sconfitto la minoranza, l’ha assorbita. Il
muro che divide i due ceppi del partito resta comunque ancora in piedi, è una
differenza culturale (che è anche diffidenza personale) destinata a riproporsi
a breve sulla legge di Stabilità. Se è vero infatti che le priorità politiche
sono figlie dell’identità, è già chiaro che in economia il premier si muoverà
fuori dagli schemi classici della sinistra: il progetto di abolire le tasse
sulla prima casa, così come l’ipotesi di aumentare la soglia per l’uso del
denaro contante, suggerita dai centristi, lo porteranno in rotta di collisione
con un pezzo della «ditta».
Ma anche in questo passaggio Renzi sembra predisporsi ad
assorbire il dissenso interno, bilanciando la deriva post berlusconiana sulle
tasse (che è l’accusa di cui è fatto oggetto) con un piano sulla povertà, che
non è il reddito di cittadinanza. La sua linea si richiama all’economia sociale
di mercato, e tanto basta per rammentare agli avversari interni che il suo dna
non è post-comunista ma post-democristiano.
Per il resto, il suo schema di gioco è ripetitivo: da una
parte vara le norme sulla responsabilità civile dei magistrati, dall’altra
compensa con misure più severe sulla corruzione; approva il decreto
Franceschini sugli scioperi nei servizi pubblici e intanto si appresta a
licenziare una legge contro il caporalato; non offre spazi a Bersani ma è in
procinto di chiamare a Palazzo Chigi un suo (ex) fedelissimo come l’ex
governatore emiliano Errani.
Proprio quest’opera di assorbimento della minoranza fa
crollare il teorema che Renzi stia lavorando al partito della Nazione, che non
ha ragion d’essere. Non solo perché — la storia lo insegna — gli innesti
politici sono destinati al rigetto elettorale, ma perché è evidente come il suo
progetto sia piuttosto allargare i confini del partito.
Si tratta di una mutazione genetica del Pd o di una sua
evoluzione? Ecco il punto: ed è attorno a questa domanda che in prospettiva
rischia di consumarsi la scissione. L’idea di Renzi, la sua scommessa, è che
nel 2018 il Pd sappia intercettare anche il consenso dei giovani elettori,
quelle nuove generazioni che andranno al voto e che non solo non hanno
conosciuto la stagione delle ideologie ma non hanno nemmeno vissuto l’era del
bipolarismo muscolare, e vivono affacciati su un mondo in bilico tra paure e
speranze.
Perciò il passaggio sulle riforme costituzionali conta fino
a un certo punto. La vittoria nelle urne si giocherà su immigrazione ed
economia.
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