martedì 3 novembre 2015

ANCHE PAOLO MIELI ATTACCA TAVECCHIO. MA UN EDITORIALE SEMBRA UN PO' TROPPO

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Che Tavecchio non fosse il presidente più brillante ed "esibibile"  sulla  poltrona  della Federazione Calcio si era intuito subito, anche prescindendo dagli strali di Andrea Agnelli, che veramente gliene disse - e continua a dirgliene - di tutti i colori.
Magari l'uomo ha anche doti apprezzabili, se non altro di navigazione ed esperienza, ma "sotto costa", non certo in mare aperto.
Le gaffe accumulate dall'uomo sono ormai tante, da superare abbondantemente i famosi tre indizi che fanno una prova.
L'uomo però non si dimetterà, figuriamoci, e il governo, che pure non gradisce dirigenti in posti di alta visibilità che accumulino brutte figure, non può certo silurarlo come fa quando il controllo dei peones politici glielo consente. La sfiducia dovrebbe venire da quei club che lo hanno voluto Tavecchio, ma se questi lo hanno votato non lo hanno certo fatto perché pensavano di mandare un lord al vertice...
Per cui penso che se lo terranno, e di conseguenza noi.
Ciò posto, ritengo un po' esagerato che Paolo Mieli dedichi a Tavecchio parte dell'editoriale odierno sul Corriere della Sera, come fosse un Aldo Grasso qualunque...
E anche l'altro episodio denunciato, per quanto sicuramente antipatico, e tanto, non rientra, a mio avviso, tra quelli di primo piano. Certo, è giusto denunciare il cinismo di persone che comunque occupano un posto di minimo rilievo, però non è che dai gestori dell'ospedale israelitico dipende chissà cosa.
Insomma, dedicargli un articolo di denuncia e biasimo sì, un editoriale magari è troppo.
La sensazione, spero sbagliata, è che Mieli si stia un po' impancando a professorino etico, a mo' Scalfari, per dire, e questo mi stupirebbe in negativo in un giornalista buon conoscitore della storia, e che in passato, da direttore, ha mostrato anche parecchio pelo sul pancino.





Le crudeli «battute» sugli ebrei
di Paolo Mieli

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Due mesi fa, Sajid Javid, ministro britannico delle Attività produttive, si è detto testimone del fatto che ad alcune cene nei quartieri benestanti di Londra prendono parte «persone rispettabili della classe media che avrebbero un sussulto di orrore se fossero accusate di razzismo ma in quelle occasioni sono assai felici di ripetere calunnie sugli ebrei». Chissà se in qualcuno di quei convivi Javid ha incontrato il presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, Carlo Tavecchio.
Più probabile che le «battute» sull’«ebreaccio» Cesare Anticoli e sugli israeliti che «è meglio tenere a bada» come, a suo dire, avrebbe suggerito Umberto Eco (questa poi è, se possibile, ancora più stravagante) le abbia riservate per il direttore di Soccerlife Massimiliano Giacomini. Un’esclusiva per noi italiani, insomma. Come anche le sue parole sui gay: «Io non ho nulla contro, però teneteli lontano da me; io sono normalissimo».
Non ci fossero state le sue precedenti sortite sui neri «mangiabanane» e sulle donne che «fino a qualche tempo fa si riteneva fossero handicappate», avremmo potuto pensare a un, pur gravissimo, incidente. Ma adesso siamo costretti a constatare che c’è del metodo in Carlo Tavecchio. Un metodo reso ancora più evidente dalle successive espressioni di rammarico: «È un ricatto», «Ho ottimi rapporti con la comunità ebraica», «Ho sostenuto la posizione di Israele nell’ultimo congresso della Fifa».


Manca solo quel che comunemente si sente ripetere in circostanze del genere: la mia famiglia fu contraria alle leggi razziste del 1938, abbiamo dato riparo a degli ebrei all’epoca delle persecuzioni naziste, il mio migliore amico degli anni di gioventù portava orgoglioso la kippah . Povero Tavecchio, ad ogni evidenza non sa quel che dice. E che sia giunto per lui il tempo di ritirarsi a vita privata, lo si è capito allorché dal Parlamento è scattato in sua difesa l’onorevole Carlo Giovanardi che da anni si distingue nel pervicace patrocinio delle cause più stravaganti. Il parlamentare ha dichiarato che contro il dirigente sportivo si sarebbe messa in movimento una «polizia dei costumi» intenzionata a procedere al suo «linciaggio». Ha poi rimarcato che in difesa di Tavecchio si sarebbero schierati l’ambasciatore di Israele Naor Gilon e Vittorio Pavoncello, presidente del Maccabi Italia, laddove i due si sono limitati a ricordare che Tavecchio si era opposto a una mozione palestinese per l’esclusione delle squadre israeliane dalle competizioni calcistiche. «Sul resto — ha precisato Gilon — non entro nel merito». Non sembra una gran difesa. Cosicché anche di Giovanardi si può dire che non misura alla perfezione le parole che pronuncia.
A questo punto però la cosa più sciocca sarebbe quella di pensare che quello del capo della Federcalcio sia un caso isolato e chiuderla qui. Pochi giorni fa sono state pubblicate alcune intercettazioni in margine alla vicenda dell’Ospedale israelitico di Roma, una truffa sui rimborsi per la quale la Regione Lazio intende adesso recuperare otto milioni di euro (chiede cioè la «restituzione» di un milione per ogni anno di spese fuori controllo, dal 2006 al 2013) e che ha portato all’arresto dell’ex direttore Antonio Mastrapasqua. Tramite una sua collaboratrice, Mastrapasqua cercava di convincere il recalcitrante Riccardo Pacifici (all’epoca presidente della comunità ebraica romana) che la richiesta di chiarimenti su quei rimborsi era frutto di un complotto dei fedayn . Con l’insinuazione che la dirigente della Regione che chiedeva lumi, Flori Degrassi, fosse «non filopalestinese, ma proprio Hamas al cento per cento». In altre parole una devota non già di Abu Mazen, bensì di Khaled Meshaal. C’è da domandarsi: e anche se fosse? Che c’entra con la richiesta di informazioni su conti che non tornano? Ma non è tutto. Dal momento che la comunità ebraica non intendeva accogliere la richiesta di dichiarare una sua supplementare guerra a Meshaal per interposta Degrassi, i dirigenti dell’Israelitico decidevano di passare a una sollecitazione ancor più impegnativa. In un colloquio tra il primario di geriatria, Stefano Zuccaro, e il direttore sanitario dell’Israelitico Luigi Spinelli, i due provano ad alzare la posta: «La questione è politica e la comunità deve mettere sul piatto della bilancia la Shoah», suggerisce il primo; «Sì, sì, devono comincia’ a fa’ i piagnoni come sanno fare benissimo», concorda il secondo .
Colpiscono varie cose in questo mini dibattito tra i dirigenti del nosocomio che, ne siamo sicuri, in più di un’occasione si saranno dichiarati grandi amici del popolo ebraico. In primo luogo, come è evidente, la noncuranza con cui si prova a toccare il nervo sensibile della tensione tra Israele e i palestinesi nell’assai modesto intento di evitare i controlli della Regione sulle loro spese. Una sproporzione destinata ad aumentare a dismisura quando si alza l’asticella fino alla Shoah. Potevano davvero pensare questi signori che rappresentanti ufficiali della comunità ebraica avrebbero potuto «fa’ i piagnoni» sul più grande, incommensurabile dramma del Novecento al fine di evitare accertamenti sulle loro attività? Che considerazione hanno degli appartenenti al mondo che li aveva voluti a quel posto? È questo il punto. Dal momento che può darsi che nei processi Mastrapasqua e i suoi amici vengano assolti o in qualche modo se la cavino riuscendo a dimostrare l’assenza di dolo in materia di conti maggiorati. Ma quelle loro parole contengono un tasso di cinismo e di crudeltà che in un Paese civile non dovrebbe essere lasciato passare sotto silenzio. È quello che viene fuori dalle cene londinesi denunciate dal ministro Javid. È ciò che si intravede sullo sfondo delle «battute» di Tavecchio. E che prende un’orribile consistenza nelle parole dei sodali di Mastrapasqua. Anche se questi ultimi godranno di minori luci della ribalta dal momento che in loro difesa, almeno per il momento, non ha ritenuto di pronunciarsi l’onorevole Giovanardi

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