Bernard Henry Levy sarà un guerrafondaio, o un illuso sognatore che pensa che sconfiggere i cattivi, ieri Gheddafi, oggi l'Isis e in mezzo Assad, renderà il mondo migliore (in effetti così dovrebbe essere, ma poi non accade...) , magari tutte e due le cose.
Sicuramente non è uno che crede che la Pace, anche unilaterale, con le bandiere arcobaleno opposte a quelle nere del Daesh (il nuovo nome che i politically Correct applicano a quelli del califfato), risolva i conflitti. Perché la pace per farla bisogna essere in due, mentre la guerra si può benissimo farla da soli, e se la controparte si veste da agnello, meglio, sarà più facile.
Del suo commento pubblicato sul Corriere, condivido molte cose, e quindi il fatto che vada schiacciata la testa del serpente, liberando le città di Raqqa, Mosul, Sirte, cosa niente affatto impossibile visto i risultati che i peshmerga, da soli e relativamente armati, stanno conseguendo, che la tesi, diffusa, che gli islamisti ci attaccano perché noi attacchiamo loro, ignorando quello che questa gente combina contro i deboli e le minoranze di quei paesi, è "infetto", e, last but not least, che Obama è persona disturbata, ossessionata dall'idea di obbedire all'icona datagli all'inizio del suo mandato (il nobel per la pace, dopo tre mesi !!! e che poteva aver mai fatto per meritarlo ? e allora il gran da fare, post rem ).
Non piacerà "alla gente che piace". A me è piaciuto.
PERCHÉ LA PACE A PARIGI PASSA DALLA
GUERRA
Bernard Henry Levy
«Siamo in guerra», ha dichiarato François Hollande davanti al Congresso riunito a Versailles. «Siamo in guerra», ha ribadito Manuel Valls, il suo primo ministro, in tutti i modi possibili. Ma attenzione! Siamo, l’hanno detto molto chiaramente, in una guerra doppia. Contro un unico nemico, ma una guerra che si divide in due.
C’è il fronte interno, che passa attraverso i tavolini all’aperto, gli stadi di calcio o le sale da concerto parigine, così come attraverso i covi di Saint-Denis o Molenbeek, in Belgio, dove si rintanano i combattenti infiltrati. Ma c’è anche il fronte esterno, che è quello principale e che passa per Raqqa, Mosul e le altre città irachene e siriane dove questi barbari trovano le loro armi, vanno a cercare le loro mappe e imparano nei campi di addestramento che abbiamo lasciato prosperare, l’arte di questa nuova e atroce guerra contro i civili.
Dire che è questo secondo fronte a essere decisivo non significa che basterà spazzare via lo Stato Islamico per vedere sparire per incanto tutte le cellule più o meno dormienti che sono già all’opera, pronte a colpire, nelle grandi città di Francia e d’Europa.
Ma questo vuol dire senza dubbio che, essendo laggiù il cuore, le risorse, i centri di comando, priveremmo queste cellule, colpendole alla testa, di una buona parte della loro potenza: come combattere gli effetti senza andare alle cause? Forse le succursali non dipendono dalla casa madre? Si può forse guarire un cancro prendendo a bersaglio solo le metastasi e lasciando proliferare il tumore principale? Come non vedere, in una frase, che la pace a Parigi passa per la guerra a Mosul? O, più esattamente, che questa guerra contro l’Isis non può essere vinta nelle strade di Parigi martirizzate da un nemico invisibile, imprevedibile, pronto a ricominciare, ma nelle pianure irachene e siriane, dove è allo stesso tempo visibile, facile da individuare e vulnerabile?
A questo ragionamento di buon senso si oppongono oggi tre forze di diversa intensità.
L’atteggiamento alla Monaco 1938, per cominciare, di quanti invertendo l’ordine dei fattori ripetono ovunque che è perché noi ce la prendiamo con gli islamisti che gli islamisti se la prendono con noi: argomento stupido e infetto che era, fatte le debite proporzioni, quello dei pacifisti degli anni Trenta e che vede la riflessione allineata sulla retorica stessa degli assassini e dei loro comunicati infami.
Il vecchio argomento, poi, che ci veniva propinato già vent’anni fa, a proposito dell’esercito serbo, reputato il terzo del mondo e che, in questo caso, consiste nello spaventare le popolazioni con il ritornello dell’armata super-potente e invincibile che ha smembrato l’Iraq e
E poi c’è, in terzo luogo, la reticenza di un Barack Obama sempre più visibilmente tormentato da quello che saremmo tentati di chiamare la sindrome di Oslo: questo famoso premio Nobel per la pace attribuitogli nei primi mesi del suo mandato e che fa sì che il presidente della prima potenza mondiale, l’uomo senza il quale niente sarà possibile e la cui determinazione è importante almeno tanto quanto quella del presidente Hollande, sembra domandarsi ogni mattina, quando si fa la barba, come dovrebbe agire un vero premio Nobel per la pace… Il presidente degli Stati Uniti capirà alla fine che, di fronte a un nemico che ha dichiarato guerra alla civiltà, il tempo del narcisismo moralizzatore è passato? Capirà quanto disastroso sarebbe lasciare come eredità uno Stato nazista al quale si sarebbe permesso di radicarsi nel territorio di sua scelta, quando invece saremmo ancora in tempo, se lo decidessimo, per spazzarlo via?
Ascolterà Obama il grido di soccorso che lancia, al suo alleato di sempre, una Francia nel lutto e sentirà che il suo Paese ha, come nel 1917, come nel 1944, per la terza volta appuntamento con l’Europa? E che fine ha fatto il giovane Barack Obama che ho incontrato, nel
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