mercoledì 20 gennaio 2016

FELTRI CONTRO FELTRI . SU TANGENTOPOLI HA RAGIONE IL FIGLIO



L'altro giorno avevamo pubblicato ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2016/01/il-tempo-galantuomo-riscrive-la-storia.html ) la bella recensione di Pierluigi Battista al libro appena uscito di Mattia Feltri, figlio di Vittorio, titolato Novantatré e dedicato alla documentata descrizione della stagione di Mani Pulite.  Una lettura fortemente critica, con stroncatura non soltanto dei magistrati protagonisti ed allora incensati come eroi dal popolo (quest'ultimo spesso dedito ad eleggere dei campioni di morale ed etica, praticamente piombando gli specchi di casa...) ma anche dei loro complici e sodali nell'instaurazione del clima di terrore giustizialista, vale a dire i giornalisti. Alcuni di questi hanno poi fatto autocritica, come per esempio Sansonetti, Sallusti, altri, come Mieli (allora direttore del Corsera) o Vittorio Feltri no.  Siccome il figlio attacca anche lui, ecco che il fondatore di Libero gli rende pan per focaccia scrivendo una recensione stroncatura sul Giornale (pure diretto da quel Sallusti che, come abbiamo appena ricordato, personalmente ha preso le distanze da quel periodo, ammettendo gli errori fatti).
Mattia Feltri risponde a sua volta al genitore su La Stampa, e francamente le sue osservazioni mi sembrano inoppugnabili.
Qui non si tratta di negare che, con tangentopoli, si arrestarono e condannarono anche tanti mariuoli, né che non esistesse un sistema di finanziamento illecito dei partiti. Lo ammise apertamente Craxi in Parlamento, in un celeberrimo discorso, in cui invitò i colleghi a smentire che quel sistema fosse universalmente diffuso e surrettizio alla sopravvivenza dei partiti politici così come si erano strutturati.
Nessuno parlò, né avrebbe potuto farlo.
Semplicemente è condivisibile la tesi per cui il problema, scoperchiato, dovesse trovare una soluzione politica, anziché procurare la distruzione dei partiti della prima repubblica, salvo quelli post comunisti (chissà perché non toccati dalla procura di Milano ) e post fascisti, vale a dire formazioni non proprio eticamente esemplari, visti i loro precorsi storici.
E' poi incontestabile che il modo con cui quella campagna giudiziaria venne condotta fu un esempio di strame dello Stato di  Diritto, delle Regole procedurali, delle Garanzie.
Oltretutto, anche per coloro per i quali - noi non tra questi - il fine giustifica i mezzi, mi pare, a leggere le cronache odierne e di tutti gli anni successivi al tragico 1992, che nemmeno quello - la fine delle tangenti - sia stato centrato.
Molti danni, gravi, in alcuni casi tragici, e benefici ?




Tangentopoli, Feltri contro Feltri


  20/01/2016    
Giovedì scorso è uscito un mio libro - «Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite», edito da Marsilio - e ieri il «Giornale» ne ha pubblicato un’ampia stroncatura firmata da Vittorio Feltri, cioè mio padre. Non c’è stupore né amarezza, abbiamo un rapporto eccellente e franco: in «Novantatré» lui è «scaraventato nella discarica dei reietti», per usare le sue parole, ma sappiamo entrambi che non c’è niente di personale. E poi su Mani pulite discutiamo da decenni, io spretato e critico, mio padre più favorevole, sebbene non entusiasta come quando dirigeva l’«Indipendente»; talvolta pare che ci stiamo avvicinando e invece no, ognuno resta al punto di partenza. Ci resta soprattutto lui, che mi rimprovera di trascurare «furti su furti, per decenni impuniti» da parte dei politici che «spendevano e spandevano senza requie» e per questo «il debito pubblico impazziva e ne soffriamo ancora gli effetti devastanti». Dunque «se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70». Eppure il pentapartito non pensò mai di «legittimare il finanziamento privato della politica» perché sennò «zero margini per appropriazioni indebite». Infine, «Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile (...) su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene».  
 
Sono un po’ in imbarazzo perché la disputa mi sembra fuori fuoco: la disonestà generale della classe politica non è contestata, ma è il presupposto - nell’introduzione avverto che il libro non è negazionista, «le mazzette c’erano, i colpevoli c’erano, il sistema era talmente diffuso da coinvolgere tutti...» - esattamente come era il presupposto di Bettino Craxi che nel luglio del 1992, all’alba della grande inchiesta, riconobbe davanti a un Parlamento silente e vile che «fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati». Né impunità né «malversazione a fin di bene», piuttosto Craxi aggiunse che nessuno aveva diritto di nascondersi dietro un’onestà provvisoria, e da questa considerazione, politica, non penale, bisognava trarre le conseguenze. Un nuovo regime fondato sulla menzogna delle mani pulite vincenti sulle mani sporche non sarebbe andato lontano. Come poi si è visto. 
 
Mi spiace che le mie pagine vengano lette come i tempi supplementari del derby politica-magistratura. Non ci credo più da secoli.
La magistratura fu pessima come pessimi fummo tutti noi, semmai disponeva di armi micidiali; al linciaggio del pentapartito, che ci aveva tenuti dalla parte giusta della storia, e cioè lontani da Mosca, parteciparono in massa con sanguinario disincanto i giudici e gli ex comunisti, seconde file della politica e imprenditori, giornalisti e popolo eccitato, tutti a ritagliarsi uno spazio e un ruolo nell’Italia che rinasceva, e a ritagliarselo all’ultimo minuto, come al solito.
Si esultava collettivamente a ogni arresto e a ogni suicidio perché avevamo trovato il capro espiatorio. E fummo così inconsistenti e sprovveduti da restare senza fiato quando si andò a sbattere contro l’esito della scalcagnata rivoluzione: nel ’93 avevano diritto di cittadinanza soltanto i partiti eredi delle tradizioni assassine del Novecento, postcomunisti e postfascisti, condannati dalla storia, ma assolti in tribunale. Ed era già troppo tardi. 
 
Il mio libro si chiama «Novantatré» (come ha capito perfettamente Gianni Riotta, che lo ha recensito per la «Stampa») ma si potrebbe chiamare Sedici. Perché da ventitré anni continuiamo a raccontarci una favoletta insopportabile: tutta colpa della casta.
Anche mio padre fa risalire il debito pubblico anzitutto alle tangenti, quando invece è stato contratto per garantire un colossale assistenzialismo fatto di welfare e pubblico impiego, per sopportare l’assenteismo degli statali e l’evasione fiscale degli autonomi: chi viveva e continua a vivere al di sopra delle proprie possibilità è un Paese intero.
Il problema del «Novantatré» è lo stesso problema del Sedici: la malattia sono gli italiani. Se abbiamo questa politica e questa magistratura e questo giornalismo è perché siamo questa Italia. 

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