lunedì 4 gennaio 2016

GIUDICE RINVIA LA CAUSA A GENNAIO 2019 E SPIEGA : NON SONO UNO SCHIAVO

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Leggo che al governo vogliono mettere per l'ennesima volta mano alla giustizia, per renderla veloce ed efficiente...
Io invidio mio padre, che aveva sulla scrivania un codice lodevolmente stropicciatissimo dall'uso, ma che aveva potuto invecchiarsi anche grazie al fatto che per vari lustri il legislatore se ne era stato quieto, almeno sul lato della procedura. Negli ultimi 25 anni, nel campo del civile, non so quanti codici ho dovuto cambiare, senza contare la spesa del processo telematico - una riforma assolutamente necessaria, certo non inventata da renzino ma inaugurata sotto la sua egida - con tutti gli aggiustamenti in corsa tuttora in effettuazione e dei testi guida per districarsi tra le novità.
E' l'aggiornamento bellezza, e andrebbe bene, se qui non fosse forte la sensazione di muoversi a caso, cambiando di continuo senza trovare mai il bandolo della matassa.
Eppure, basterebbe un normale esperto di traffico urbano per spiegare che anche per i processi vale il principio del traffico : bisogna evitare l'effetto imbuto, e quindi non serve assolutamente a nulla velocizzare l'entrata se poi l'uscita resta stretta !
Così, nel processo civile, l'istruttoria si concentra anche in due anni (potrebbero essere meno, se tra un'udienza e l'altra non passassero almeno sei mesi ) ma poi il giudice te la rinvia di almeno un anno per la decisione, perché ne ha tante da sentenziare prima di quella.
Attraverso paletti a volte giusti (rinvii senza motivazione, una volta un flagello abusato dagli avvocati), a volte meno (decadenze cervellotiche, specie in un sistema burocratico amministrativo penosissimo, come quello del servizio notifiche), si è ottenuto di abbreviare l'istruttoria, ma poi al casello si resta in coda, in attesa che si alzi la sbarra della sentenza...
In Corte d'Appello, parlo sempre del civile, a Roma i rinvii per la decisione - vale a dire senza alcuna altra attività intermedia - sono mediamente di tre anni...
Fa rumore e finisce in cronaca la notizia che un rinvio siffatto avvenga in primo grado, a Taranto. Il Giudice, immaginando lo scalpore e temendo ispezioni, mette le mani avanti e spiega, nel dettaglio, perché non può fare altrimenti.
Discutibile ma vabbè, potremmo anche mandarla giù.
Quello che invece non si può, e infatti viene biasimato anche da un difensore dei magistrati strenuo come Ferrarella, del Corsera, è il riferimento, fatto dal giudice, alla tutela dell'uomo contro la schiavitù e il lavoro forzato prevista dalla Convenzione Europea per i diritti dell'uomo.
Quando si dice farla fuori dal vaso...




 Il Corriere della Sera - Digital Edition

E il giudice rinvia l’udienza a gennaio (ma del 2019)

di Luigi Ferrarella


La causa civile iniziata nel settembre 2014? Il 21 dicembre 2015 il giudice l’ha rinviata al 18 gennaio 2019. Perché tutto questo tempo? «Celebro 160 processi all’anno — scrive il giudice — e nel triennio il futuro massimo di capacità lavorativa esigibile è già prenotato e esaurito da 500 altre cause più vecchie di questa». E l’ipotesi di lavorare di più è impraticabile anche perché «la Convenzione dei diritti dell’uomo vieta schiavitù e lavoro forzato». Sono queste le motivazioni con cui un giudice della II sezione del Tribunale civile
di Taranto, Alberto Munno, prima di Natale ha rinviato
al gennaio 2019 la decisione
di una causa da 200 mila euro tra due società. L’Associazione nazionale magistrati ha indetto un referendum sul chiedere o no al Csm di introdurre «carichi esigibili», cioè «una misura in cifra del lavoro sostenibile dal magistrato in funzione degli obiettivi di adeguata quantità e qualità del lavoro».

La causa civile iniziata nel settembre 2014? Il 21 dicembre 2015 il giudice la rinvia al 18 gennaio 2019 perché scrive di viaggiare già al ritmo di circa 160 sentenze l’anno, nel triennio il futuro massimo di capacità lavorativa esigibile è già prenotato e esaurito da 500 altre cause più vecchie di questa, e lavorare di più è impraticabile anche perché «la Convenzione dei diritti dell’uomo vieta schiavitù e lavoro forzato»: con queste motivazioni un giudice della II sezione del Tribunale civile di Taranto, Alberto Munno, prima di Natale ha rinviato al gennaio 2019 la decisione di una causa da 200mila euro tra due società.
In tre pagine di ordinanza — nelle quali si coglie anche un riflesso di «giurisprudenza difensiva» rispetto a rischi (disciplinari, erariali e di responsabilità civile) dello sforare la legge Pinto che risarcisce chi non abbia una sentenza di primo grado entro 3 anni — il giudice premette che già all’inizio di questa causa il 26 settembre 2014 si ritrovava sul ruolo un imbuto di «500 cause più vetuste» che dovevano «trovare prioritaria definizione negli anni 2015, 2016 e 2017 e 2018»: sicché a questo scopo, dopo 165 udienze di precisazione delle conclusioni e decisione delle cause nel 2015, ne risultano «fissate 160 per il 2016» e già «114 per il 2017, 60 per il 2018 e 28 per il 2019», alle quali «dovranno aggiungersi» non soltanto «le udienze nei procedimenti collegiali», ma anche «le ulteriori udienze di precisazione delle conclusioni e decisione delle cause» più vecchie, «la cui fase di istruzione è prossima a concludersi e che dovranno essere definiti con priorità rispetto» a questo fascicolo nato nel 2014.
Sono numeri di notevole produttività, superiori anche alla media nazionale dei giudici civili che si aggira tra le 120 e le 140 sentenze annuali e il cui indice di smaltimento del 131% piazza la magistratura italiana al terzo posto sui 47 Paesi del Consiglio d’Europa. Ma anche con questo ruolino di marcia personale, il giudice tarantino schiacciato dalle pendenze conclude che «risulta così del tutto esaurita» sino a fine 2018 «la capacità lavorativa massima esigibile». Calcola infatti che, pur conteggiando il sabato «che non è considerato lavorativo in numerose amministrazioni statali anche di livello apicale», in un anno lavorativo fatto di 270 giorni «il giudice civile può dedicare non più di 140 giorni allo studio dei processi e alla redazione delle sentenze e delle ordinanze monocratiche e collegiali, previo studio delle questioni giurisprudenziali», perché gli altri 130 restano assorbiti dalla «celebrazione delle udienze tabellari monocratiche e collegiali, e dalle ulteriori attività di ufficio». Senza dimenticare che «l’impossibilità giuridica di definire i giudizi in tempi più brevi è determinata dalle decisioni che vogliono l’erogazione del servizio demandata ad un numero di unità operative inferiore a quello necessario»: riferimento alle diffuse carenze di cancellieri e alle disparità di magistrati per sedi in rapporto ai flussi di sopravvenienze.
Certo, si potrebbe lavorare giorno e notte, domenica e festivi, ma «la protrazione sine die dell’impegno lavorativo — ritiene Munno — comporterebbe un’inammissibile compressione dei diritti inviolabili della persona umana del magistrato impiegato, essendo la durata massima della giornata lavorativa preordinata alla tutela dei diritti di cui all’art. 2 della Costituzione». E qui al giudice forse scappa un po’ la frizione laddove prospetta che «la prestazione lavorativa senza limite di durata incontra il divieto di cui all’art.4 della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”, la quale, sotto la rubrica “divieto di schiavitù e del lavoro forzato”, dispone al comma 2 che “non è considerato come lavoro forzato ogni lavoro che fa parte delle normali obbligazioni civili”»: e ad avviso del giudice «non può considerarsi “normale obbligazione civile” la prestazione lavorativa la cui durata sia sottratta a limiti predeterminati e certi, e sottoposta agli arbitri degli utenti del servizio». Argomentazione ardita a parte, che il tema sia assai sentito lo dimostra il referendum che l’Associazione nazionale magistrati, su richiesta della corrente di Magistratura indipendente, ha indetto per il 17-18-19 gennaio sul chiedere o no al Csm di introdurre «carichi esigibili», cioè «una misura in cifra secca (come per i magistrati amministrativi) del lavoro sostenibile dal magistrato in funzione degli obiettivi di adeguata quantità e qualità del lavoro».


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