Non so se avrò lo stomaco per leggere il libro di Mattia Feltri dedicato agli scempi giudiziari della trista e triste stagione di Mani Pulite. Di quel periodo ho le idee molto chiare, da tempo, avendolo deplorato quando quasi tutti lo applaudivano (ricordo personalmente un mio zio, inneggiatore esaltato di Di Pietro che finalmente la faceva pagare ai politici, che poi venne a confessarmi tremante di essere coinvolto in un furto di fagiani...), e poi letto gli articoli di denuncia di Filippo Facci, Giovanna Maglie e di pentimento, di Piero Sansonetti.
Malgrado questo, lo sforzo forse lo farò, invogliato dalla opportuna e stimolante presentazione di Pierluigi Battista che lo descrive molto curato e documentato, ancorché confermandomi la sensazione di angoscia che ti procura lo scempio dello Stato di Diritto descritto e che in quella stagione trovò il suo culmine.
Dal giustizialismo trionfante di quel periodo non siamo mai più guariti, anche se la fine dell'alibi berlusconiano fa intravedere qualche piccolo, flebile spiraglio di luce.
Non sarà facile far rientrare chi è uscito dalle caserme..., però almeno dirlo non è più reato. Forse.
Il terrore giustizialista dell’Italia del 1993
di Pierluigi Battista
Si intitola Novantatré , come il romanzo che Victor Hugo volle dedicare al Grande Terrore rivoluzionario in cui il solo autorizzato a parlare era il boia con la sua ghigliottina, il libro di Mattia Feltri che è stato appena pubblicato da Marsilio. Si dice sempre: bisogna ricordare, mai abbassare la guardia della memoria. Ecco, questo libro serve a ricordare ciò che vorremmo dimenticare sui risvolti oscuri, bui, indicibili della rivoluzione chiamata «Mani Pulite» che affossò
Un Terrore nostrano ma non meno violento, in cui i giornali e le tv non
lesinarono panegirici imbarazzanti per incensare i nuovi angeli sterminatori
della magistratura. In cui l’opinione giornalistica si adeguò nella sua quasi
totalità (Mattia Feltri, con un’onestà intellettuale che gli fa onore, non
risparmia nessuna citazione, nemmeno quelle che riguardano suo padre Vittorio)
ai fogli d’ordinanza dettati dalle Procure. In cui ci furono suicidi di cui si
disse che il suicidio era la prova della colpevolezza. In cui si teorizzava
l’uso smisurato e intimidatorio della carcerazione preventiva. In cui il
processo mediatico soppiantò quello giudiziario in senso stretto.
Alcuni ladri
furono assicurati alle patrie galere? Sì. Certo. Ma la democrazia liberale e lo
Stato di diritto vissero un periodo fosco e corrusco. E la giustizia si
trasformò molto spesso in gogna e linciaggio.
Il libro di Feltri è pieno di dettagli da brivido. Ma le citazioni dei
magistrati accolte nel giubilo popolare e riportate in queste pagine dimostrano
quanto sia sprofondata in Italia la cultura dei diritti. «Si vede che c’è
ancora qualcuno che per la vergogna si uccide», disse Gerardo D’Ambrosio dopo
il suicidio del socialista Sergio Moroni. «Noi incarceriamo la gente per farla
parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato», proclamò Francesco Saverio
Borrelli. Il gip onnipresente Italo Ghitti: «Il nostro obiettivo non è
rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire».
Pier Camillo Davigo, a un convegno del Lions Club del 14 luglio 1993: «Gli
inquisiti non si possono lasciare in libertà, altrimenti la gente si incazza».
Il Terrore .
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